Ateneo di gennaio 1968 (dettagli)
Titolo: Ateneo di gennaio 1968
Descrizione: Numero completo.
Data: 1968-01
Identificatore: 19_01
Testo:
ateneo
Anno XIX/ n. 1 (speciale sull'occupazione) / gennaio 1968. Periodico
d'informazione degli universitari torinesi / redazione: palazzo del
l'università, via G. Verdi 8, Torino/Spediz. in abbon. post. gruppo IV.
DOCUMENTI
DELL’
OCCUPAZIONE
IN questo numero di « Ateneo » pubblichiamo i principali documenti
elaborati durante la lotta condotta dagli studenti di Palazzo Campana.
Essi affrontano i punti fondamentali sui quali è maturato il discorso
degli studenti che hanno partecipato e partecipano alle agitazioni: la
struttura repressiva della didattica tradizionale, il problema degli stu
denti lavoratori, cioè il problema del diritto allo studio, e le proposte
elaborate dagli studenti stessi durante l'occupazione.
Molti, tra cui anche alcuni che sono d'accordo sulla critica svolta
all'attuale ordinamento universitario e scolastico in generale, si sono
domandati il perché dell'occupazione, identificando questa con un mo
mento di violenza non necessario. Ma la didattica tradizionale che gli
studenti di Palazzo Campana hanno individuato come repressiva ed
oppressiva, anche se svolta con metodi formalmente e apparentemente
democratici, è essa stessa una continua e raffinata violenza che i do
centi fanno all'autonomia intellettuale, politica e personale degli stu
denti.
Per scardinarla l'unico mezzo è fermarla e organizzare l'autonomia
del movimento studentesco. E' attraverso questa analisi che si è arri
vati alla decisione dell’occupazione vista come mezzo atto ad impedire
lo svolgimento delle lezioni tradizionali e ad impostare una didattica
alternativa il cui cardine non sia la carriera accademica dei docenti
ma i reali interessi, le esigenze, la problematica degli studenti.
Questo è il significato dei controcorsi che si sono tenuti durante
l’occupazione. Essi in quanto partivano direttamente dalla problematica
degli studenti distruggevano il concetto stesso dei piani di studio e di
Facoltà (intesi come mezzo per preordinare, e con criteri non con
trollabili, il curriculum culturale e professionale degli studenti), affer
mando invece il principio dell'autodeterminazione culturale e quello
dell’interdisciplinarietà. Non solo, ma sono stati anche il momento del
l'organizzazione politica degli studenti in quanto centri della discus
sione e delle scelte che hanno condotto alla elaborazione della carta
rivendicativa e della strategia per il proseguimento della lotta.
Dopo un mese di occupazione il rettore Allara (su ordine del mi
nistro Taviani), ha mandato la polizia, e a Palazzo Campana e ad Archi
tettura, cacciandoli fuori: il fatto che il senato accademico li abbia fatti
estromettere da Palazzo Campana nel momento in cui era stata por
tata a termine l’elaborazione della carta rivendicativa ha significato:
I) il rifiuto di riconoscere il movimento studentesco come controparte
e quindi il rifiuto della contrattazione, II) la paura del senato accade
mico stesso nei confronti del movimento studentesco e quindi il ten
tativo di distruggerlo con un ulteriore atto di violenza. Per questo il
10 gennaio, con la riapertura dell’Università, hanno rioccupato, ma la
polizia è nuovamente intervenuta: da quel giorno la sua presenza al
l'interno di Palazzo Campana è stata costante. La repressione esercitata
« normalmente » con la didattica, nel momento in cui veniva messa in
crisi dall'organizzazione autonoma degli studenti, si è trasformata,
com’era prevedibile, in repressione poliziesca.
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A questo punto l’unico strumento di cui disponevano per affermare
la loro presenza all'interno dell'Università era quello dell’occupazione
bianca; cioè della interruzione delle lezioni per cercare e provocare il
discorso con docenti e studenti.
Si è constatato, attraverso questo tipo di azione, che i professori
non sono assolutamente in grado di affrontare un dibattito politico sui
temi dell'agitazione e alcuni, pur affermando ipocritamente di essere
in parte d'accordo con l’analisi critica, portata avanti da essa, rifiuta
vano ogni impegno o discussione trincerandosi dietro il fatto di esser
dei funzionari dello Stato pagati per fare lezione, dimostrando così di
non volere altro se non la sopravvivenza di quelle strutture che garan
tiscono il loro potere personale (la Costituzione sancisce il diritto di
sciopero anche per i funzionari dello Stato). D'altra parte si è invece
riusciti a stabilire un dialogo con molti studenti che precedentemente
non erano mai entrati in contatto diretto con gli occupanti e con i temi
portati avanti da essi. L’allargamento e la continua presenza politica
del movimento hanno indurito la repressione della polizia, della quale
il Rettore non era più direttamente responsabile: gli ordini ormai ve
nivano direttamente da Roma: si è arrivati così al sopruso del professor
Getto che ha imposto arbitrariamente il controllo dei tesserini all’en
trata di una sua lezione: di fronte al rifiuto di molti « indesiderati » di
piegarsi all’imposizione, ha chiamato la polizia, facendone arrestare
due. La risposta degli studenti a questo nuovo atto di violenza, che nei
calcoli del corpo accademico e del ministro Taviani avrebbe dovuto ser
vire ad annientare definitivamente il movimento studentesco, è stato
un corteo di duemila persone e la successiva dichiarazione di occu
pazione: essi sanno infatti che per difendere la propria organizzazione
e le proprie rivendicazioni devono affrontare anche l'azione poliziesca
che si presenta come l'unico strumento valido per chi non ha altro
obbiettivo che la difesa del proprio privilegio personale.
Di fronte alla forza dimostrata dagli studenti il corpo accademico è
stato costretto a cedere e ad accettare le loro condizioni: la sospen
sione di tre giorni dell’attività didattica e il dibattito pubblico che si
è svolto poi sabato 20 gennaio alla presenza di duemila persone: esso
sì è trasformato in un processo popolare nei confronti dei professori.
L'indebolimento della posizione delle autorità accademiche ha fatto
intravvedere nel dibattito di sabato una certa volontà di trattare da
parte dei professori. L’assemblea degli studenti, riunita lunedì nel
l’aula magna, ha posto a questo proposito le seguenti condizioni:
revoca dei provvedimenti disciplinari;
riconoscimento dell’Assemblea come unico organo rappresenta
tivo degli studenti;
sospensione delle attività didattiche durante il periodo delle
trattative.
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Di fronte al rifiuto del senato accademico, gli studenti rioccupavano
l'Università e ne venivano successivamente cacciati dalla polizia verso
mezzanotte.
Constatata l'impossibilità di fermare il movimento studentesco con
la polizia il Rettore decretava la serrata di Palazzo Campana e deci
deva di indire un referendum tra tutti gli studenti, ponendo l’alterna
tiva tra la continuazione dei « disordini » (e la conseguente perdita
dell'anno accademico) e il ritorno alla « normalità ». Era chiaramente
un tentativo autoritario di bloccare l'agitazione ponendo delle alterna
tive sotto forma di minaccia, pretendendo di prendere in mano le re
dini del movimento studentesco e di calpestarne in tal modo l'au
tonomia.
Il referendum, che voleva presentarsi come una istanza democratica,
proponendo agli studenti una alternativa prefabbricata senza permettere
la discussione e l’approfondimento dei termini in questione, voleva
contrapporsi alle Assemblee che viceversa attraverso una partecipa
zione effettiva alla discussione rappresentano la nuova, reale istanza
democratica creata dal movimento studentesco.
Non solo, ma con questo strumento il Rettore, appellandosi a quegli
studenti che non avevano prima preso contatti con l’agitazione, forse
non perché contrari ad essa ma perché impossibilitati per motivi
perloppiù di carattere economico-sociale a partecipare alle attività uni
versitarie anche quando esse rientrano nella cosiddetta « normalità »,
ne mistificava ancora una volta la posizione reale di esclusi.
Il referendum è stato a tal punto criticato non solo dagli studenti
ma anche da buona parte del corpo docente, che rischiava di spezzarsi
definitivamente su questo punto, che dopo una settimana il senato
accademico non ne ha più parlato.
Intanto entravano in agitazione gli studenti del Politecnico che riu
niti in un’assemblea dicirca 1000 presenti chiedevano al Consiglio di
Facoltà la sospensione temporanea delle attività didattiche per poter
formare commissioni che si occupassero della riforma degli studi. Una
mozione analoga veniva approvata da una assemblea di circa 500 stu
denti della Facoltà di scienze che erano entrati in agitazione con uno
sciopero nella giornata di venerdì 26 gennaio.
Di fronte all'allargamento della agitazione studentesca il movimento
di Palazzo Campana non può rimanere isolato, rischiando di ripiegare
in una concezione corporativa del movimento studentesco, ma deve
porsi come obbiettivo prioritario l'unificazione con gli studenti del
Politecnico e delle Facoltà scientifiche, e la creazione di un movimento
studentesco cittadino che investa anche le scuole secondarie e medie
e sappia elaborare un discorso politico unitario sulle istituzioni scola
stiche e universitarie all’interno della società italiana. Solo così gli
studenti di Palazzo Campana saranno in grado di raccogliere una forza
sufficiente per imporre al Senato Accademico l'accettazione della carta
rivendicativa.
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OTTO nostri compagni hanno ricevuto un mandato di comparizione
per rispondere dei reati di invasione di edifìcio, interruzione di
pubblico servizio, violenza e minacce, con una serie di aggravanti, prima
fra tutte quella di essere i promotori e organizzatori di tali reati. È
arrivato per adesso soltanto a questi otto in quanto essi sono conside
rati «i capi ». A una mentalità autoritaria quale è quella del nostro se
nato accademico e di molti magistrati, suona impossibile che il movi
mento studentesco non abbia bisogno di capi ma prenda le decisioni col
legialmente attraverso strumenti quali le Assemblee, spesso disconosciute
da chi, troppo abituato alla partecipazione puramente formale alle deci
sioni, non è più in grado d'apprezzarne le istanze di partecipazione diretta.
Ecco il testo del mandato di comparizione:
Luigi Bobbio, Francesco Audrito, Laura Derossi, Carlo Donat Cattin,
Diego Marconi, Sergio Piazza, Maurizio Vaudagna, Guido Viale
Imputati tutti
a) del reato di cui agli artt. 110-81 cpv., 633 I° e II° comma, 61 n. 2
C.P., perché con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in
concorso con alcune centinaia di persone, in distinte occasioni invadevano
arbitrariamente, al fine d'occuparli e di consumare i reati sub b) e sub
c), pubblici edifici sede di Facoltà universitarie: in particolare il Palazzo
Campana sede delle Facoltà umanistiche, dal 27 novembre al 27 dicembre
di continuo; il 29 dicembre 1967; il 10 gennaio 1968; il 22 gennaio 1968;
con l'aggravante dell'art. 112 n. 2 C.P. di avere promosso ed orga
nizzato la cooperazione nel reato; e diretto l’attività delle persone con
correnti nel reato medesimo;
b) del reato di cui agli artt. 110-81 cpv., 340 I° e II° comma, 61 n. 2
C.P., perché con più azioni del medesimo disegno criminoso, anche al
fine di consumare il reato sub c) in concorso fra di loro e con nume
rose altre persone, in distinte occasioni, col comportamento descritto
sub a) e con altri atti (turbativa d’una lezione del prof. Allara il giorno
13 gennaio 1968), turbavano o interrompevano le lezioni e le altre attività
scientifiche presso le Facoltà universitarie con sede nel Palazzo Campana;
agendo come promotori e organizzatori di tali turbative ed interruzioni;
c) del reato di cui agli artt. 110-81 cpc., 338 I° comma, 339 C.P..
perché con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso in con
corso con le persone concorrenti nei reati sub a) e sub b), col comporta
mento ivi descritto, e con la manifestazione esplicitamente formulata e ri
petuta anche alle Autorità Accademiche, del proposito — effettivamente poi
attuato — di proseguire le occupazioni e le turbative delle lezioni, di para
lizzare l’attività didattica ed ogni altra attività universitaria usavano mi
naccia al fine di costringer le Autorità Accademiche dell'Università di To
rino (Senato Accademico, Consiglio d’Amministrazione) a revocare la deli
berazione del Consiglio d'Amministrazione, d’acquistare l'area della tenuta
« la Mandria » quale sede d'alcune Facoltà universitarie: a decidere di
troncare anche temporaneamente l’attività didattica in programma per
l'anno accademico in corso; ad aderire alla richiesta del piano governativo
di riforma dell'Università; ad impostare per l'anno accademico in corso e
per l'avvenire in genere, una nuova attività di studio con forme e
modi non previsti dalla legge ma formulati da essi stessi.
Il regime fascista conosceva la categoria del « reato politico ».
La società della repressione « democratica » non la conosce; riduce
le azioni politiche che vuole impedire al rango di reato comune.
Incorrono nelle stesse pene anche le proposte di carattere didattico.
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Didattica
e repressione
Gli studenti che hanno occupato Palazzo Campana un mese e mezzo
fa si sono resi conto che un’azione di forza era l'unica risposta che
poteva ormai venir data allo sfacelo in cui versa l'Università italiana.
I Docenti in genere se ne infischiano dell’Università, e conside
rano le loro cattedre ed i loro incarichi come un posto ed uno sti
pendio sicuro che permette loro affari privati.
C'è chi fa il sindaco (Giuseppe Grosso), chi il deputato (Mussa
Ivaldi), chi fa il dirigente industriale (Ricossa), chi fa il principe del
foro (Gallo), chi fa il pianificatore (Lombardini) e chi non fa assolu
tamente nulla (Nicola Abbagnano); c’è, infine, chi riesce ad accumu
lare un tale numero di stipendi e di incarichi da essere continua
mente impegnato (Giorgio Gullini).
Per i professori della Facoltà di medicina, essere docenti è un
mezzo per far pagare salate le parcelle e per impadronirsi di una
fetta degli ospedali cittadini.
Per tutti gli altri docenti, quelli che nell’Università svolgono una
qualche forma di ricerca, il rapporto tra didattica e ricerca è una
pura finzione legale, che serve come copertura della loro attività
privatistica e del tutto scoordinata che ha una ed una sola finalità:
la Carriera del Docente.
Ricercare nella nostra Università, vuol dire scrivere libri e fare
pubblicazione.
Il prestigio di ogni professore si misura in base al volume di pub
blicazioni che l'istituto in cui il docente è infeudato riesce a sfornare.
Si mettono sotto borsisti, assistenti, incaricati-tirapiedi, a fare ri
cerche del tutto inutili e completamente scoordinate.
Nelle Facoltà umanistiche si scrivono libri, saggi, articoli che non
dicono assolutamente nulla di nuovo, che sono riadattamenti acca
demici degli scritti di altri docenti di Università italiane, quando non
addirittura traduzioni, più o meno fedeli, di scritti di docenti stranieri;
essi servono per vincere i concorsi, dove pare che il valore degli
aspiranti-cattedratici si misuri in base al peso complessivo delle pub
blicazioni presentate da ciascuno (per questo, probabilmente, la carta
patinata e la rilegatura in cartone sono divenute di prammatica).
Nelle Facoltà scientifiche, nel caso in cui i docenti non si fanno
commissionare ricerche direttamente da alcune industrie interessate
(vedi Politecnico di Torino, Chimica di Milano, ecc.), la ricerca è com
pletamente gratuita, costa enormemente e sfocia in una pubblica
zione per far sapere a tutti che il tale od il tal altro istituto funziona,
compie ricerche nuove, che il tal Professore è riuscito, finalmente,
ad aggiungere un granello di conoscenza al gran mucchio del Sapere
Scientifico.
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L’Università è una struttura feudale in mano ai docenti: la « Ri
cerca » è il loro blasone.
La didattica tradizionale.
Di tutte queste ricerche non ne viene riservata nemmeno una goc
cia alla didattica, la quale è impostata ancora col metodo tradizio
nale in cui il docente recita a memoria i suoi libri e le sue dispense
durante la lezione cattedratica; col metodo tradizionale del semi
nario in cui alla fine si arriva a scoprire quello che il professore sa
peva già e voleva che venisse scoperto; col metodo tradizionale dei
laboratori in cui si fa finta di fare esperimenti il cui scopo è quello
di « scoprire » qualcosa, ma in cui lo studente ha un solo compito e
una sola preoccupazione: quella di farlo « riuscire »; col metodo tra
dizionale delle esercitazioni in cui si perde tempo e non si impara
nulla, tanto è vero che resta ancora tutto da studiare a casa.
Eppure queste ricerche costano un sacco di soldi; tenere in piedi
l'Università con i suoi istituti, le sue biblioteche frazionate ed intoc
cabili, le sue apparecchiature scientifiche, le sue pubblicazioni, i son
tuosi saloni di rappresentanza della cui esistenza si viene a cono
scenza solo nei momenti di emergenza (occupazione), i suoi docenti
che a volte all'Università non mettono mai piede e fanno tenere le
lezioni dagli assistenti, facendosi però pagare lo stesso profumata
mente; tenere in piedi tutto ciò incide in misura notevole nel bi
lancio nazionale; perchè lo Stato paga questo costo?
La ragione di tutto questo è da ricercare nel tipo di didattica che
noi studenti siamo costretti a subire: un indottrinamento continuo
in cui lo studente è costretto a svolgere un ruolo puramente passivo
e recettivo. Un insieme di riti accademici quali le lezioni, i seminari,
i laboratori; una perdita continua di tempo durante tutto il giorno,
a cui lo studente è costretto a sottoporsi perché gli si vuol far cre
dere che questo è l'unico mezzo per appropriarsi della « Scienza »
e della « Cultura », quella scienza e quella cultura accademiche che
esistono solo perché ci sono una serie di persone (docenti, per
l’appunto) pagati dallo Stato per celebrare all’Università i loro riti
accademici.
Un professore di anatomia ogni inizio di anno, entra in classe cir
condato dai suoi assistenti, e prima di iniziare a parlare si fa decre
tare un applauso, poi risponde pressapoco così: « Grazie di questo
applauso, per altro meritato, in quanto in me onorate la Scienza ecc. ».
Per il docente l'Università è un feudo, per lo studente è soltanto
un apparato repressivo, dove si esercita quotidianamente una forma
di violenza che è tanto più ingiusta quanto più è mascherata sotto le
spoglie delle esigenze dell’apprendimento e della formazione profes
sionale. Gli esami, le lezioni, la perdita di tempo, l'indottrinamento,
i provvedimenti disciplinari, l’imposizione dall’alto della scienza e
della cultura, sono tutte forme di controllo e di violenza esercitate
sullo studente, e non sembrano esserlo solo perché gli studenti si
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sono assuefatti a subirle e le considerano una cosa assolutamente
normale e inevitabile.
Dove sono la scienza e la cultura se non nella testa dei docenti
e nell'indottrinamento continuo a cui vengono sottoposti gli studenti?
La ricerca scientifica in Italia è organizzata e gestita direttamente
dalle industrie ed esclusivamente in funzione del profitto.
Quando le industrie commissionano qualche ricerca all'Università,
la controllano completamente. I ricercatori dell’Università diventano
praticamente dei dipendenti dell’industria commissionatrice. Se il
finanziamento è sufficientemente ingente l’istituto di ricerca si tra
sforma praticamente in un reparto dell'ufficio di progettazione del
l’industria che finanzia e controlla la ricerca: questo è il caso della
maggioranza degli istituti del Politecnico di Torino; e di alcuni isti
tuti della Facoltà di chimica. La ricerca e l’entità dei finanziamenti
restano completamente segreti, nessuno sa realmente che tipo di
ricerca si svolge in questi istituti, e neanche una briciola di tale ri
cerca passa nella didattica.
Quando invece la ricerca non è segreta e viene rivestita del dovuto
posto accademico, possiamo stare sicuri che non serve a nulla, se
non ad aumentare il prestigio di chi la svolge. Quali sono le con
quiste scientifiche realizzate negli istituti di matematica, fisica, bio
logia dell’Università di Torino? Nessuna, un certo volume di pubblica
zioni da recensire, postillare, rimasticare per tenere in piedi il pre
stigio dei docenti che le hanno fatte.
Dov'è la cultura? Quando gli studenti di Palazzo Campana hanno
organizzato i loro controcorsi, nella scelta stessa dei temi e dei pro
blemi da affrontare hanno dimostrato che ciò di cui finora si sono
occupati i loro docenti, finalmente estromessi dall'Università, non li
interessava minimamente; e che i vari problemi sono quelli che i pro
fessori hanno sempre cercato di tenere lontano dagli studenti: la
psicoanalisi, il Viet-Nam, lo sviluppo economico, la scuola italiana, la
diffusione sociale e politica della ricerca filosofica, ecc. ecc.
Anche la preparazione professionale, che dovrebbe giustificare la
attuale struttura dell'Università, divisa per Facoltà e corsi di laurea,
non è che un mito. La formazione che si riceve dopo 4, 5, 6 anni di
Università non è che il risultato di un coacervo di nozioni ricevute in
base al potere che ciascun docente o istituto ha di imporre la prio
rità dei propri insegnamenti rispetto agli insegnamenti che fanno
capo agli altri docenti ed istituti (es. a medicina ogni titolare di cat
tedra riesce a imporre agli studenti di frequentare una o più materie
complementari come condizione per poter sostenere l'esame fonda
mentale di cui egli è titolare).
I laureati dell'Università italiana sono tutti dequalificati: i profes
sori di scuola media non sanno insegnare; gli economisti non sanno
nemmeno chi è Keynes (non parliamo di Marx); i chimici, i fisici, i
biologi, se non troveranno chi li farà lavorare, dovranno imparare da
capo che cosa significa ricercare; i giuristi sanno tutto sulla norma
giuridica e non conoscono nemmeno il codice civile.
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A che cosa serve l'Università italiana? Serve soltanto ad indottri
nare gli studenti, a renderli autoritari e incapaci di discutere, a far
perdere loro la capacità di individuare la dimensione politica e so
ciale di quello che studiano.
Perché i docenti hanno tutto il potere e gli studenti soltanto dei
doveri?
Perché gli studenti all’Università devono imparare soprattutto a
comandare e ad obbedire, devono disimparare a discutere, devono
sapere che la Scienza e la Cultura sono proprietà privata dei docenti
e che per appropriarsene bisogna sottostare alle loro vessazioni.
La nuova didattica.
Gli studenti che hanno occupato Palazzo Campana hanno inteso
iniziare una critica radicale dell’attuale didattica autoritaria, mettendo
in discussione sia i contenuti dell’insegnamento, sia il potere dei
docenti che permette loro di selezionare, mummificare e imporre ter
roristicamente questi contenuti.
Hanno voluto riaffermare e cominciare a costruire la propria auto
nomia culturale e politica di fronte al docenti.
Scegliere i contenuti dei controcorsi, imparare a discutere (la
scuola e l'Università ci hanno fatto disimparare a discutere), studiare
collettivamente e non in modo individuale, vedere l'incidenza politica
e sociale di quel che si studia, imparare a pensare e a parlare auto
nomamente e non su comando, imparare a stabilire dei rapporti egua
litari e di parità tra chi è preparato e chi non lo è, non considerare
più il sapere come un privilegio e una fonte di prestigio, imparare a
controllare ed a discutere con i docenti una volta che questi rientre
ranno all'Università, queste sono le direttive e i presupposti della
nuova didattica che attraverso l’occupazione vogliamo imporre alle
autorità accademiche.
Queste costituiscono le linee direttive che ci hanno condotto alla
elaborazione della nostra carta rivendicativa. Vogliamo che i profes
sori all'Università siano considerati soltanto degli esperti e non i
padroni e i controllori degli studenti.
La lotta contro l'autoritarismo accademico ha un aspetto didattico
e uno politico. Tutte le volte che si mette in discussione il potere,
anche soltanto quello baronale e feudale, delle nostre strutture uni
versitarie, si ingaggia una battaglia politica. Fare politica significa lot
tare per la contestazione e la ridistribuzione del potere. Significa
sempre e comunque inserire un elemento squilibrante e disfunzio
nale nel meccanismo di potere del sistema sociale; il quale ovvia
mente reagisce.
Paternalismo e repressione.
I docenti hanno tardato parecchio a rendersi conto di tutto questo,
ed alcuni, particolarmente tardivi, non se ne sono ancora resi conto
adesso. All'inizio alcuni (Grosso e Gullini) hanno cominciato a soste
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nere che ci facevamo strumentalizzare da forze politiche esterne,
che occupavamo senza sapere neppure noi perché, per creare disor
dini che erano voluti e diretti da una ben identificata potenza stra
niera: la Cina è vicina. Altri pensavano che con alcune manipolazioni
ben fatte, con qualche consiglio paritetico, con qualche nuovo semi
nario o « corso pilota » si potesse giungere a mettere d’accordo tutti
salvando capre (professori) e cavoli (studenti). Alcuni particolar
mente intraprendenti si sono anche autoproposti come mediatori
(Gullini, Grassi). I più decisi (Grosso e C.) hanno deciso di far mo
rire l’occupazione per esaurimento interno; hanno cominciato a tenere
lezioni al rettorato, hanno incitato gli studenti alla divisione (stu
denti buoni in rettorato, studenti cattivi a Palazzo Campana).
Per dividerli ovviamente facevano l’appello.
Tutti contavano sul fatto che le vacanze di Natale avrebbero se
gnato la morte della agitazione: gli studenti sarebbero andati a sciare,
oppure sarebbero rientrati in famiglia per godersi le delizie del santo
Natale. D’altronde nessuno ha mai creduto che a Palazzo Campana si
concludesse veramente qualcosa. L’idea che gli studenti discutessero,
studiassero, imparassero qualcosa senza la luce eccelsa dell'indot
trinamento accademico sfuggiva completamente alla capacità di com
prensione dei nostri docenti. L’atteggiamento prevalente era di ge
nerica sopportazione paternalistica: fatevi i vostri esperimenti, rende
tevi conto che non valete nulla e che siete soltanto dei presuntuosi,
quando vi sarete stancati riprenderemo a far lezioni ed esami.
Il Senato Accademico ci ha persino fatto gli auguri di Natale.
Tre giorni dopo è arrivata la polizia e ci ha cacciati da Palazzo
Campana e dalle Facoltà di architettura. Che cosa era successo?
I professori si sono resi conto che stavano perdendo il controllo
sugli studenti. La radice dell'autoritarismo accademico, come tutte
le forme di potere autoritario, non risiede soltanto in una serie di
strutture istituzionali ed economiche, ma risiede soprattutto e in
primo luogo nel consenso da parte di coloro che il potere lo subi
scono. L'Università è organizzata in modo da creare e conservare
questo consenso, cioè in modo da mantenere gli studenti in uno
stato di passività e di divisione reciproca. E' questo che intendiamo
dire quando affermiamo che la didattica autoritaria è una forma di
violenza esercitata sugli studenti.
Finché gli studenti protestano per qualche giorno e finché criti
cano e sghignazzano individualmente alle spalle dei professori (e
tutti gli studenti lo fanno), questo è perfettamente sopportabile
e non cambia le cose. Se una occupazione è fatta solo per protestare,
gli studenti non elaborano forme di collegamento e di unificazione,
dopo un po' si rendono conto che stanno perdendo tempo, che prima
o dopo ci si logora e ci si stufa, e quando l'agitazione cessa le cose
tornano come prima.
Ma se gli studenti sanno organizzarsi e imparano a discutere, essi
riconquistano la loro autonomia e individuano rapidamente i veri pro
blemi. La loro forza cresce e non diminuisce, la certezza di essersi
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« ... usavano minaccia al fine di costringere le autorità accademiche
dell'Università di Torino a revocare... »
messi sulla strada giusta li rafforza nella loro volontà di continuare,
il loro esempio costituisce un elemento potenziale di generalizza
zione della agitazione agli altri studenti non ancora toccati dal movi
mento. L’autorità dei docenti perde la sua base di consenso tra gli
occupanti e viene seriamente minacciata presso coloro che ancora
frequentano. I mezzi per dividere gli studenti hanno sempre meno
presa, i discorsi sulla strumentalizzazione fanno ormai ridere tutti,
le campagne denigratorie non hanno più peso.
Il muro di omertà e di silenzio creato intorno alle forme e alle
motivazioni politiche della agitazione comincia a spezzarsi. Bisogna
ricorrere alla forza.
Fin dall'inizio dell’occupazione il giornale cittadino « La Stampa »
ha iniziato una vera e propria campagna di denigrazione degli stu
denti. Gli studenti erano pochi (15), bivaccavano, non sapevano cosa
volevano. Il giornale convocava gli studenti dissenzienti (cioè un
ristretto gruppo di fascisti) invitandoli poco velatamente a penetrare
con la forza in Palazzo Campana per sbatterne via gli occupanti. Pub
blicava gli articoli denigratori di Grosso e di De Castro, pubblicava
le lettere patetiche di genitori preoccupati per le loro figlie studen
tesse, ecc.
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« La Stampa » è stata regolarmente smentita. I fascisti sono ve
nuti, hanno sfondato le porte e si sono trovati ad essere una sparuta
minoranza. Il referendum è stato fatto ed ha dimostrato che gli occu
panti erano la stragrande maggioranza. Le lezioni al rettorato si te
nevano regolarmente e raccoglievano meno studenti che i controcorsi
organizzati dagli occupanti. I controcorsi procedevano regolarmente;
le vacanze sono cominciate e gli studenti non sono andati a sciare;
« La Stampa » avrà forse avuto un certo peso nella manipolazione
dell'opinione pubblica che noi non possiamo raggiungere. Ma tra gli
studenti, sia quelli favorevoli che quelli contrari all'occupazione, si
copriva sempre più di discredito. A dividere gli occupanti « La
Stampa » non ci è riuscita. A questo punto il Rettore ha chiamato
la polizia. Ha concordato l'intervento con il Rettore del Politecnico
ed ha mandato la polizia il 27 dicembre, in piene vacanze, alle 8 di
sera, durante l'ora di cena. Probabilmente ha esultato perché nel pa
lazzo occupato ha trovato solo 25 studenti.
Ma gli studenti non occupano Palazzo Campana per farci dentro
dei banchetti e nemmeno per infilarsi un pigiama ed andare a dor
mire. Occupano Palazzo Campana per elaborare nuove forme di di
dattica e per organizzare il movimento studentesco.
Durante il giorno partecipano ai controcorsi, alle assemblee, pre
parano e ciclostilano dei documenti, alla sera vanno a dormire e
restano dentro solamente coloro che sono indispensabili per svol
gere le mansioni di ordinaria amministrazione.
Andiamo avanti.
Il giorno dopo, in una assemblea convocata alla Camera del La
voro eravamo 300. 300 studenti il 28 dicembre, senza nessuna forma
di convocazione per iscritto. Nello stesso giorno il Senato accade
mico, che raccoglie i massimi responsabili della gestione dell'Uni
versità, non ha potuto venir convocato perchè la maggioranza dei
presidi era in montagna a sciare.
Due giorni dopo abbiamo rioccupato Palazzo Campana, improvvi
samente, senza avere prima organizzato la cosa, passando davanti
ai poliziotti che facevano il picchetto. Lo abbiamo fatto perché era
vamo in molti; ci sentivamo forti, e volevamo riaffermare la nostra
volontà di restare dentro la Facoltà occupata, perché questa è la
sede legittima e appropriata per organizzarvi e svolgervi la nostra
agitazione. Eravamo centocinquanta. Questo ha fatto capire alle auto
rità accademiche che farci cacciare dalla polizia non basta per divi
derci e disperderci, che ormai siamo pr
onti a lottare fino a quando non
avremo ottenuto quello che ci proponiamo, che l'occupazione non
l’abbiamo fatta per gioco, ma perché vogliamo organizzarvi la lotta.
Le autorità accademiche sanno che non appena si riaprirà l’Uni
versità torneremo all'attacco, che non saremo più venticinque o due
12
centocinquanta, ma che avremo la possibilità di crescere e di rag
giungere nuovi studenti.
Se continuiamo l'agitazione, prima o poi cominceranno anche a
muoversi le Facoltà scientifiche; il movimento degli studenti medi si
sta riorganizzando su basi nuove, altre sedi italiane stanno per
essere occupate nei prossimi giorni, perché la condizione degli
studenti è uguale dappertutto e sta diventando di giorno in giorno
più insopportabile, perché il nostro è un movimento che ha saputo
analizzare e individuare veramente gli obiettivi da colpire, e un movi
mento come il nostro, una volta iniziato non potrà finire. La polizia
non basta più. Cominciano i provvedimenti disciplinari: più di cento
studenti e assistenti sono stati deferiti per provvedimenti disciplinari.
Il numero e l’entità dei provvedimenti non ha precedenti nella
storia dell'Università italiana. E' la migliore prova che si potesse
avere del fatto che siamo sulla strada giusta e che le Autorità Ac
cademiche si sentono minacciate.
Si cerca di impaurire gli studenti, di creare delle difficoltà fami
liari ed economiche agli studenti in lotta. Si sta giocando l'ultima
carta per dividerli. Se siamo convinti della giustezza del nostro movi
mento, dobbiamo accettare il nuovo livello di lotta che ci è stato
imposto dalle Autorità Accademiche. Dobbiamo imporre alle Autorità
Accademiche il fatto che lottiamo per una nuova Università e per
l'organizzazione del movimento studentesco proprio perché siamo
studenti.
Dobbiamo dimostrare loro che restiamo studenti anche se le Auto
rità Accademiche non vogliono saperne di noi e se pensano che
basta sospenderci per non averci più tra i piedi. Dobbiamo essere
pronti ad affrontare tutti i rischi che la nostra lotta comporta, perché
la nostra è una battaglia politica e non c'è lotta senza rischi.
Dobbiamo riconquistarci il diritto ad occupare le sedi universitarie
quando le attività didattiche che vi si svolgono non ci soddisfano e
anzi ci opprimono.
Dobbiamo andare avanti e vincere, ottenere l’attuazione della
nostra carta rivendicativa, perché cedere e ritirarci oggi, perché avere
paura della polizia o delle sanzioni disciplinari, significa venir sconfitti
e ritornare alla didattica tradizionale; cioè riconoscere ai professori
il diritto di dividerci, di opprimerci, di manipolarci e indottrinarci, di
controllarci come poliziotti durante gli anni di Università e di fare di
noi dei qualunquisti, degli automi che domani andranno a lavorare
per opprimere degli altri uomini o per accettare passivamente di ve
nire oppressi.
Se mandano la polizia, dobbiamo saper affrontare anche la polizia
e non averne paura. Se cercano di dividerci con le sanzioni discipli
nari, dobbiamo restare uniti ed allargare il nostro movimento. Lot
tare contro la didattica autoritaria significa anche lottare contro le
istituzioni e le forme di repressione che cercano di farci ritornare al
punto di partenza.
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La stratificazione
della popolazione
studentesca universitaria
La prima schiera.
All'Università entrano in molti ed escono in pochi. Escono innanzi
tutto coloro per i quali la collocazione professionale in una posizione
dirigenziale è già garantita dalla situazione sociale della famiglia di
provenienza. I figli dei medici saranno i medici, e i figli dei farma
cisti fanno tutti i farmacisti. Se il padre ha un'impresa, i figli si
laureano ed ereditano l’impresa; coloro che provengono da un am
biente colto, hanno dei grandi vantaggi sugli altri, che si traducono
nella facilità con cui studiano e apprendono. Costituiscono la schiera
eletta degli studenti che i professori seguono con particolare atten
zione, a cui dedicano la maggior parte del loro tempo, nei seminari
(in cui per principio i partecipanti non devono superare un certo
numero, e per limitarlo sono quindi resi particolarmente difficili) e
durante la preparazione delle tesi; diventeranno assistenti e docenti
universitari, oppure otterranno una collocazione privilegiata dovuta
alla loro preparazione. In generale, per chi ha conseguito i pieni voti,
i « buoni posti » non mancano. Escono i figli dei dirigenti aziendali e
degli alti funzionari statali che si inseriscono nella piramide azien
dale o nei ranghi della burocrazia statale in posizioni di partenza
privilegiate, per cui viene garantita loro la vittoria in quella corsa alle
posizioni dirigenziali che costituisce la « carriera ». Per costoro « pren
dere la laurea » è una cosa scontata.
La seconda schiera.
Dall'Università escono anche molti altri, quelli che riescono a
raggiungere la laurea senza aver mai brillato negli studi. Verranno
assorbiti dall'industria, dalla scuola, dalla burocrazia statale, dalle
banche, dalle svariate organizzazioni di vendita e collocati in una po
sizione precostituita per raccogliere i laureati. Per loro la « carriera »
non esiste, i passaggi di grado ed i miglioramenti economici sono
precostituiti in funzione dell'anzianità. Un insegnante resta tale per
tutta la vita, passa di ruolo non per aver dato prova brillante di sé
nei concorsi, ma per aver scaldato la cattedra per un certo numero
di anni. Chi entra in una banca, se non ha qualcuno che lo spinge, sa
già al momento di entrare con che posizione potrà ritirarsi in pen
sione. Lo stesso accade per un ingegnere, un tecnico od un laureato
in economia che si inserisca in una azienda. Solo che qui i miti della
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scalata sociale sono particolarmente forti: si cerca di nascondere il
fatto che in un'azienda i laureati sono molti ma i posti di dirigente
sono pochi, e per la maggior parte già «prenotati ».
I laureati di questa seconda schiera che riescono ad uscire dal
l'Università sono in generale sottoutilizzati rispetto alla loro prepa
razione generale, e dequalificati rispetto alle loro mansioni tecniche.
L’Università attuale non è fatta per loro, ma per la prima schiera; per
loro è soltanto un mezzo per conseguire un titolo di studio che ga
rantisca loro una certa collocazione professionale. Uno studente di
lettere potrà anche aver seguito un seminario sul concetto di « es
sere nel mondo » in Heidegger, ma se però poi dovrà insegnare per
tutta la vita « rosa rosae », non lo saprà fare.
Uno studente di chimica può lavorare per due anni in un labo
ratorio di chimica fisica ma se non diventa assistente andrà molto
probabilmente a vendere farmaceutici o saponette. Se entra in un
laboratorio aziendale dovrà venir riqualificato per poter svolgere un
normale lavoro di routine, la sua preparazione di base avrebbe po
tuto comodamente procurarsela in due anni.
Uno studente di legge se non farà il giudice o il penalista, non
saprà fare assolutamente nulla. Se entra nel ramo assicurativo, verrà
adibito a mansioni che uno studente con la terza media sa fare
perfettamente.
Lo stesso dicasi per gli ingegneri: una buona conoscenza del
« Manuale dell’ingegnere » è tutto quanto viene loro richiesto dalle
industrie che li assumono, che istituiscono appositi corsi per qualifi
carli alle mansioni cui intendono destinarli. Ma per diventare inge
gneri hanno studiato sei anni.
L'Università non è fatta per questa seconda schiera. Gli studenti
della seconda schiera devono andare all’Università perché la laurea
è una patente che dà accesso a certi posti di lavoro, ma non devono
andarci per imparare un mestiere: o lo sanno già fare, o glielo inse
gneranno direttamente sul posto di lavoro. All’Università imparano
soltanto per quattro o sei anni a seconda della facoltà, che certi
posti di lavoro sono rari, che per conquistarli occorre faticare, cioè
superare una selezione che è in buona parte già predeterminata in
loro sfavore, che la laurea non è che un pezzo di carta che giustifica
e legittima una predeterminata stratificazione sociale, cioè una ge
rarchia dei posti di lavoro e delle condizioni economiche e sociali
che ne conseguono. E' questo il vero significato del senso di chi si
rende conto giorno per giorno dell'inutilità delle cose che si impa
rano all’Università, dell'inutile perdita di tempo che l’organizzazione
attuale degli studi universitari comporta, e della necessità di dover
visi comunque adeguare per ottenere « quel pezzo di carta ».
Il posto di lavoro, quel certo posto di lavoro, poi, non c’è per
tutti. Nessuno richiede dei biologi, e gli studenti di biologia non
sanno dove andranno a finire. I laureati in lettere si contendono gli
incarichi in paesi di provincia, I laureati di magistero continueranno
15
« ... agendo come promotori e
organizzatori di tali turbative
ed interruzioni... »
a fare i maestri, i laureati in legge vanno a fare gli assicuratori, i
laureati in matematica vanno ad insegnare nella scuola media. Nes
suno sa che cosa andranno a fare i fisici. L’Italia ha la maggiore sotto
utilizzazione professionale dei medici di tutto il mondo. Economisti
e uomini politici continuano a deplorare che l'Università italiana
sforna pochi tecnici, che ci facciamo superare dalle altre nazioni,
che in Italia non si fa ricerca ecc. In realtà i laureati di cui parlano
costoro sono quelli della prima schiera, quelli che all'Università, oltre
a scaldare i banchi e a darsi da fare per superare gli esami, impa
rano anche qualcosa di utile perché possono seguire i docenti nelle
loro ricerche e nei loro esperimenti; perché hanno già in mente che
cosa vogliono fare. Gli altri, quelli della seconda schiera, sono già
troppi. Le lauree sono già oggi molto più numerose dei posti di
lavoro privilegiati a cui esse danno adito. I laureati vengono già oggi
sottoutilizzati professionalmente. Più di tanti non possono essere; gli
iscritti all'Università sono molto di più; per questo l'Università deve
selezionarli.
La terza schiera.
Gli iscritti all'Università provengono da una base molto larga.
Non più soltanto i diplomati con la maturità rilasciata dalla serra
classista del liceo classico e scientifico, ma anche i maestri, i geo
metri, i periti, i ragionieri. Tutti costoro vogliono entrare all'Uni
versità perché vogliono continuare a studiare (anche a costo dei no
tevoli sacrifici economici e personali che ciò comporta) e perché
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vogliono utilizzare quelle possibilità di promozione sociale che il si
stema offre loro, cioè il conseguimento di un titolo di studio. Ma i
laureati devono essere pochi, perché oltre a un certo numero, non
servono. Come avviene questa selezione? Quali ne sono i criteri? Il
primo e fondamentale criterio di selezione è di carattere economico.
Studiare e mantenersi agli studi costa. L'Università non fornisce aiuti
economici ai suoi iscritti che in misura risibile. Chi proviene da fa
miglie non abbienti, per mantenersi agli studi deve lavorare. Gli stu
denti lavoratori, specie nelle Facoltà di economia, magistero, lettere
e filosofia, costituiscono ormai la maggioranza della popolazione uni
versitaria. A matematica, fisica, legge, architettura, la loro percen
tuale cresce continuamente.
Le loro condizioni di lavoro sono precarie: se sono impiegati in
un’azienda la loro attività di lavoro occupa un posto prioritario in ter
mini di tempo e di impegno personale rispetto alla loro attività di
studio. Inoltre le direzioni raramente vedono di buon occhio la loro
attività di studio: essa produce stanchezza e aumenta le difficoltà
sul lavoro, rende necessario concedere dei permessi per i periodi di
esame e per gli inevitabili contatti coi professori (firme, tesi, ecc.);
lascia prevedere che una volta conseguito il titolo di studio, lo stu
dente lavoratore chieda una promozione aziendale non preventivata
dalla direzione, oppure abbandoni l'azienda. A Torino il boicottaggio
degli studenti che frequentano le scuole serali è organizzato su larga
scala dalla FIAT: aumento continuo delle quote d’iscrizione, sposta
mento degli orari in modo da non farli coincidere con quelli tranviari,
pressioni dirette sui propri dipendenti che studiano fino a negare i
permessi indispensabili alla preparazione degli esami. Gli studenti
universitari impiegati in qualche azienda sono a Torino un numero
irrisorio, vengono per lo più da altre città del Piemonte e incontrano
continue difficoltà frapposte loro dalle aziende, forse un po' più libe
rali della FIAT ma non certo tenere verso di loro. Un numero mag
giore è impiegato nelle banche. La maggior parte degli studenti la
voratori non sono però impiegati di azienda. La maggioranza insegna
nelle scuole elementari o medie, con incarichi annui precari, o fa
cendo supplenze saltuarie. A loro sono assegnati spesso gli spez
zoni, cioè un numero di ore insufficienti per essere coperte da un
incarico. Su di loro si scarica quasi sempre l’onere di tenere il
doposcuola che è contemplato dalla legge sulla media unificata, ma
per il quale mancano i fondi per retribuire gli insegnanti, cosicché
viene pagato in maniera irrisoria (350 lire l'ora circa). Per chi insegna
in provincia (cioè per gli studenti lavoratori) tra trasporti e tutto il
resto, un’ora di doposcuola significa la perdita del pomeriggio.
Altre forme di impiego degli studenti lavoratori sono ancora più
precarie e saltuarie: commessi viaggiatori, rappresentanti, ripetitori
privati, baby sitters, aiuto-commessi nei periodi di punta, disegnatori,
assicuratori pagati a premio, correttori di bozze, contadini che aiutano
i familiari, ecc. Degli studenti lavoratori è impossibile stabilire il
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numero: la maggior parte non ha contratto né altra forma di registra
zione, spesso non godono di nessuna forma di assicurazione sociale.
La loro posizione precaria li sottopone ad ogni forma di ricatto da
parte dei superiori, a parità di prestazioni la loro retribuzione è
sempre inferiore a quella dei loro colleghi.
Oltre al lavoro, gli studenti lavoratori devono studiare. Non pos
sono frequentare, non riescono ad entrare in contatto con i loro
compagni. Là dove il corso è monografico spesso non hanno nem
meno le dispense, perché molti professori sostengono che non scri
vere le dispense è un modo per entrare in contatto diretto coi loro
allievi (quelli che invece le scrivono, si preoccupano di farle pagare
tre, quattro, fino a seimila lire: esse spesso non sono che una caterva
di citazioni tratte da libri propri ed altrui).
Gli studenti lavoratori studiano esclusivamente in modo indivi
duale. L’argomento del corso non è stato nemmeno presentato loro;
compagni con cui discutere ed affrontare insieme certe difficoltà ra
ramente ne trovano: comprano il libro o le dispense e cercano di
impararle a memoria, di ripeterle quanto più fedelmente possibile
agli esami. Tranne rare eccezioni, la cultura e la scienza di cui do
vrebbero appropriarsi sono percepite come qualcosa di totalmente
estraneo, di ostico e inutile, più ancora di quanto accada ad un nor
male studente che frequenta. Lo studio è per loro un impegno, in
termini di tempo, che rappresenta un controllo totale sulla loro gior
nata: oltre al lavoro e allo studio, non resta loro tempo per nessuna
altra attività: poco cinema, niente ragazze, niente politica, astensione
dalla attività sindacale, poco al bar, niente sport. I soldi guadagnati
vanno tutti in libri e in tasse scolastiche. Nonostante il prestigio di
cui gode presso di loro, lo studente lavoratore è di fatto impari
anche rispetto ai lavoratori suoi colleghi. Il contatto tra gli studenti
lavoratori e le strutture istituzionali dell’Università avvengono sol
tanto all'atto dell'iscrizione (tasse da pagare), e degli esami (voto
sul libretto). Quasi tutti gli studenti lavoratori pagano le tasse. Per
ottenere l’esenzione, è necessario seguire rigidamente il piano di
studi, e conseguire una media che è astronomica anche per chi fa
lo studente a tempo pieno. Chi studia nei ritagli di tempo, gli esami
li dà ovviamente quando può, ed al ritmo che riesce a seguire. Il
presalario (350.000 lire all'anno) è ovviamente una chimera (a lettere
e filosofia per conseguirlo occorre la media del 30).
Gli esami sono la forma fenomenica sotto cui l'Università si pre
senta allo studente lavoratore: un poliziotto denominato per l’occa
sione docente, che in cinque-dieci minuti liquida l'imputato con una
serie di domande. Per gli studenti che frequentano, l'esame è una
prova di abilità: bisogna conoscere la psicologia e i pallini del do
cente, compiere una serie di gesti che fanno credere al docente che
chi gli sta davanti è una persona Intelligente e sicura (es. riversarsi
contro la spalliera della seggiola mentre si parla, grattarsi il mento,
sorridere a certe allusioni, non usare certe parole, guai se si co
mincia con « dunque » a un esame di Allara). Per gli studenti lavo
ratori, che non conoscono il professore, l'esame è un gioco d'azzardo.
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Essere preparato non serve a nulla, la timidezza di fronte alla Scienza
e alla Cultura, incarnate nella figura del professore, ti possono bloc
care anche se sapresti rispondere; una domanda molto chiara è su
scettibile di diverse risposte, ma la psicologia selettiva del docente
ne contempla una e una sola; inoltre, spesso, le domande non sono
per nulla chiare.
I docenti non fanno discriminazioni rispetto agli studenti lavora
tori (almeno in generale: le sfuriate contro chi studia e lavora, ab
bassando così il livello culturale dell’Università non sono rare agli
esami; e il prof. Guzzo, decano della facoltà di lettere, si è rifiutato
di assegnare una volta un 30 ad uno studente perché lavorava: la
filosofia è superiore a certe cose...). Ma è un fatto che gli studenti
che lavorano sono meno preparati di chi fa solo lo studente, che chi
non conosce il professore è handicappato rispetto a « chi sa lavorar
selo », che per molti professori l'esame è soltanto la conferma di
un giudizio già formulato sugli studenti che lui conosce, mentre è un
controllo senza diritto di appello sugli studenti che gli si presentano
per la prima volta; che la provenienza da un ambiente economica
mente agiato e colto costituisce un indubbio vantaggio rispetto a
coloro che provengono da un ambiente culturalmente ed economica
mente subalterno.
L'esame, più o meno equo nella forma in cui si svolge, si traduce
in una conferma per gli studenti che fanno parte dell'Università, e
in un massacro per quelli che ne sono esclusi. Fanno parte dell’Uni
versità gli studenti che frequentano; per chi lavora, l'essere iscritti
all'Università è una beffa ed una truffa. L’Università li accoglie quando
si iscrivono per far loro pagare le tasse e per far loro credere che
hanno le stesse possibilità di promozione sociale e di acquisizione
culturale degli altri. Li seleziona agli esami, perché non possono esi
bire le stesse credenziali culturali degli altri.
Molti studenti pagano così 50-60.000 lire all'anno di tasse per
poter venire bocciati due o tre volte all’anno dopo un colloquio di
dieci minuti con il professore. Bocciare richiede tempo, ed il tempo
del docente, a cui la società ha delegato il compito di fermare lo
studente lavoratore nella sua corsa verso la laurea, è prezioso. Così
questa punizione viene svolta in serie. In certe Facoltà sembra una
catena di montaggio. A magistero in tre giorni si esaminano 600 e
più studenti.
Così, sotto le false spoglie di una selezione culturale e scienti
fica, si attua in realtà una selezione sociale. Dopo due, tre bocciature
agli esami, si smette di studiare, si rimanda di sessione in sessione
il prossimo esame, finché ci si accorge che è inutile continuare a
pagare le tasse per dare lo stipendio a quel professore che continua
a bocciare. Chi è più perseverante, si fa incastrare per un numero
superiore di anni. Solo pochi riescono a farcela, per essere di per
petuo esempio a tutti gli altri che non ce la faranno perché conti
nuino a credere che la scuola è uno strumento di promozione sociale.
19
Ma se si sa già che non ce la faranno, che i più saranno costretti
ad abbandonare l'Università prima della laurea, perché li si lascia
iscrivere? Non sarebbe meglio togliere loro la speranza e le illusioni
fin dall’inizio?
Questo urterebbe contro i principi di una società che garantisce
l’eguaglianza formale ai suoi membri per mascherare le differenze
sociali. Formalmente tutti sono eguali quando si iscrivono all'Uni
versità e di fronte ai professori che li esaminano, ma di fatto quelli
che lavorano non ce la faranno. L’Università serve a far loro credere
che esiste « l’eguaglianza delle opportunità » e intanto per tutti gli
anni che resteranno all'Università, essa serve ad esercitare su di loro
un opprimente controllo sociale, sia impegnandoli in termini di tempo,
tenendoli occupati per due o tre ore al giorno a studiare cose com
pletamente inutili; sia manipolandoli ideologicamente, rendendoli suc
cubi di una cultura che è loro estranea e che si presenta ai loro occhi
come appannaggio di una classe di cui vorrebbero entrare a far
parte; sia instillando loro la concezione che la società è caratteriz
zata da una stratificazione continua in cui il titolo di studio è il cri
terio di assegnazione a ciascuno dei vari strati sociali, impedendo
loro in tal modo di scorgere come il criterio fondamentale della divi
sione fra le classi sia da ricercare nella ripartizione del potere: tra
chi il potere lo detiene, chi non ce l’ha assolutamente, e chi lo ge
stisce per conto degli altri.
L’Università deve essere aperta a tutti non solo in linea di diritto,
ma anche nei fatti. Lo studio deve diventare una forma effettiva di
preparazione professionale e di formazione culturale, e non soltanto
una forma di mistificazione per garantire a pochi il diritto di occupare
posti di lavoro privilegiati. Sarà la stessa pletora di laureati, rispetto
alle effettive possibilità di assorbimento del sistema, che dimostrerà
nei fatti come fino ad ora gli studi universitari non sono stati una
effettiva forma di qualificazione professionale, ma soltanto una ma
schera culturale di una selezione sociale predeterminata.
La battaglia per il diritto allo studio.
Per questa nuova Università, aperta a tutti, è necessario ingag
giare una battaglia per il diritto allo studio, che investa successiva
mente i vari strati che oggi ne sono esclusi; prima gli studenti uni
versitari costretti a lavorare, poi gli studenti che vanno a lavorare
prima di raggiungere la soglia dell'Università: gli studenti medi, quelli
serali, quelli delle scuole tecniche; infine tutti quanti i non studenti,
per i quali il diritto allo studio è una esigenza altrettanto, se non più
forte, che per coloro che sono effettivamente studenti.
E’ questa una vera e propria battaglia sociale, che deve avere per
protagonisti le persone direttamente interessate, che non può essere
condotta in nome degli altri da coloro a cui il diritto allo studio è
20
« ... invadevano arbitrariamente
al fine di consumare i reati... »
garantito dalle condizioni economiche della propria famiglia. E' una
battaglia che ha delle tappe obbligate, e che si estenderà a nuovi
strati della popolazione, studentesca e non, soltanto mano a mano
che gli strati più direttamente interessati al problema avranno ingag
giato e vinto la loro battaglia.
Così, la battaglia per il diritto allo studio nella Università, non può
venir condotta e vinta dall’attuale movimento studentesco, che ha la
sua base quasi esclusivamente fra coloro che il diritto allo studio
ce l'hanno già. E’ assurdo credere che bastino gli studenti privile
giati per condurre e vincere una battaglia in nome degli studenti
lavoratori. E' questa una concezione paternalistica, che ha caratteriz
zato le battaglie per il diritto allo studio condotte finora dal M.S.,
che tende a nascondere la vera natura delle cose, a non cambiare
nulla, e di fatto, sul piano del diritto allo studio il M.S. non ha an
cora ottenuto nulla. Il pre-salario è una enunciazione di principio che
non si è tradotta, e non poteva tradursi, in un mutamento sociale.
21
Finché gli studenti lavoratori saranno dispersi, disorganizzati, fin
ché il loro rapporto con l'Università sarà di carattere esclusivamente
individuale, finché saranno culturalmente e politicamente succubi dei
docenti, e delle attuali strutture universitarie, che fanno intravedere
loro la possibilità di conseguire la laurea, senza permetterglielo nei
fatti; le battaglie per il diritto allo studio sono purtroppo destinate
a venir perse.
Il nostro compito, di noi che frequentiamo ed occupiamo l'Uni
versità, non è quello di parlare in nome degli studenti lavoratori, ma
è quello di cambiare le strutture universitarie in modo tale che la
differenza fra chi è effettivamente dentro l'Università, e chi ne è di
fatto fuori, perché non ci viene se non per dare esami, salti imme
diatamente agli occhi. Il nostro compito è quello di distruggere il
carattere mistificatorio degli esami, che sembrano uguali per tutti,
ma che sono di fatto un massacro per gli studenti lavoratori, ed il
carattere mistificatorio della lezione cattedratica, in cui non si può
mai appurare chi c'è e chi non c'è, in cui è indifferente esserci o non
esserci, e sostituirla con lo studio per gruppi.
Il nostro compito è anche quello di aiutare gli studenti lavoratori
ad organizzarsi, facilitando la creazione di canali di comunicazione
fra di loro, perché possano confrontare e discutere i loro problemi,
è quello di fornire loro una sede (il Movimento Studentesco), dove
portare ed esprimere le loro esigenze e le loro rivendicazioni.
Qualcosa si sta muovendo. Stiamo cominciando a convocare riu
nioni di studenti lavoratori nei vari centri del Piemonte. Bisogna che
gli studenti lavoratori comprendano che la responsabilità del loro
stato di disorganizzazione ricade in gran parte sulle attuali strutture
universitarie, e che un movimento studentesco in lotta contro l’auto
ritarismo accademico non può in alcun modo danneggiarli, ma può
invece costituire il primo passo verso l'organizzazione di tutti gli
studenti che lottino veramente per la democratizzazione della scuola
e della Università, ingaggiando una battaglia per il diritto allo studio
che ne costituisce la premessa indispensabile.
22
Carta rivendicativa
per la ristrutturazione
delle facoltà umanistiche
Premessa.
1) Nella carta rivendicativa che segue si richiede una ristruttura
zione dello studio universitario. Qui cerchiamo di indicare alcuni ob
biettivi che si vogliono raggiungere con detta ristrutturazione.
2) L'Università attuale non risponde alle esigenze poste dalla do
manda di lavoro esistente nella società. Il nostro obbiettivo, tuttavia,
non è il semplice adeguamento alle esigenze della domanda di lavoro.
Riteniamo che l'Università debba, e possa, fornire a chi la frequenta,
al tempo stesso, una preparazione professionale adeguata e degli
strumenti di critica rispetto al ruolo professionale.
3) Se questo è l'obbiettivo a cui attualmente si mira, lo strumento
adatto a raggiungerlo non è una semplice riformulazione del piano di
studi, che scelga, ordini e colleghi in modo più « razionale » le ma
terie di studio in funzione di una preparazione professionale più effi
ciente. Le proposte centrate unicamente su una struttura per dipar
timenti nell'Università rientrano in questi limiti che vogliamo supe
rare; la struttura dipartimentale costituisce una condizione necessaria
ma non sufficiente rispetto allo scopo (e, nella formulazione distorta
della legge 2314, non costituisce neanche questo).
E' quindi necessario andare al di là, e trasformare non solo la
struttura del piano di studi, ma la scelta degli argomenti specifici di
studio al suo interno e i metodi di studio.
4) Ciò significa:
la possibilità degli studenti di definire le materie funzionali a
un certo indirizzo di studio;
la possibilità, all'interno di questo, di scegliere argomenti e con
tenuti di studio che non rispondano solo allo scopo dell'efficienza pro
fessionale, ma a quello di un’analisi critica della professione nel suo
contesto sociale;
un’organizzazione dello studio che sviluppi al massimo la capa
cità di discussione e di valutazione critica dello studente.
5) Questi scopi non sono raggiungibili nell'ambito della struttura
di potere esistente attualmente nell'Università.
Questa struttura di potere va rotta su due piani:
a) va rotto il monopolio detenuto dal professore di cattedra sulla
materia che istituzionalmente gli compete;
23
b) la capacità di decisione degli studenti va organizzata in
forme autonome dalla struttura istituzionale dell'Università.
6) Anche nel metodo di studio da noi proposto sono necessari al
cuni strumenti tecnici che non possono essere elaborati autonoma
mente dagli studenti ma devono essere forniti da esperti. Tuttavia è
necessaria una struttura che non faccia coincidere automaticamente
la figura dell'esperto con quella del professore cattedratico della ma
teria (e neanche, più in generale, con quella del docente universi
tario in quanto tale), per due ragioni:
a) perché spesso di fatto il professore non è l’esperto che si
richiede;
b) perché attraverso tale coincidenza automatica si ricostitui
rebbe il potere del professore anche sugli indirizzi e sugli argomenti
di studio.
7) Per questo l'unità di decisione fondamentale dello studio deve
essere un gruppo di studio degli studenti, che di volta in volta chiama
l'esperto, professore o meno, utile a certi scopi, e che determina la
linea complessiva dello studio senza essere dipendente dalla deci
sione di un unico docente ad esso preposto.
8) Tuttavia, la struttura formale — che verrà delineata più speci
ficamente nella carta rivendicativa — non garantisce di per sé il con
seguimento degli scopi che abbiamo enunciati. Essa è solo il quadro
di organizzazione formale che regola l’azione di determinati gruppi,
ma non determina necessariamente il potere effettivo di ciascuno di
essi. Per questo è necessaria l’organizzazione del movimento studen
tesco su basi autonome: è necessario, cioè, che il suo potere non
dipenda unicamente dal ruolo che gli è riconosciuto da tale struttura
formale. Ciò significa che gli studenti devono organizzarsi e decidere
sui loro obbiettivi e sui mezzi ad essi funzionali in modo del tutto
indipendente dal posto loro assegnato anche in questa nuova strut
tura universitaria.
9) Più specificatamente, ciò significa due cose:
a) che in ogni momento il movimento studentesco deve essere
in grado di contestare le strutture che ad esso propone, se esse
risultano utilizzate per scopi contrastanti con quelli qui delineati;
b) che in ogni momento il movimento studentesco deve essere
in grado di ridefinire gli scopi stessi della sua azione rispetto alla
società. Il « dosaggio » e il grado di priorità attuale tra esigenze
funzionali ed esigenze critiche rispetto alla destinazione sociale dello
studente, dipendono anzitutto dal grado attuale di coscienza e di or
ganizzazione degli studenti stessi; lo sviluppo del grado di coscienza
e di organizzazione può mutare tali obbiettivi, ed è necessario che il
movimento studentesco abbia l'autonomia necessaria per tradurre nelle
sue azioni questo mutamento. Ad esempio le attuali « soluzioni di
compromesso » sul problema dell’assegnazione dei voti potranno rive
24
larsi insufficienti a rompere il potere esercitato dal docente in questo
campo e le « distorsioni competitive » del metodo di studio, e può
quindi divenire necessario in futuro un superamento del sistema del
voto in quanto tale.
10) In questa prospettiva è ovviamente decisivo, l’allargamento
della base attuale del movimento studentesco. Anche se essa rap
presenta già ora una base più vasta e più attivamente partecipante
rispetto a quella dei movimenti passati, essa resta tuttora una mi
noranza sia rispetto all'insieme degli studenti che frequentano l’Uni
versità, sia tanto più rispetto a quelli che vi sono iscritti, ma non la
frequentano.
Se, rispetto ai primi, il problema è anzitutto di uno sforzo sog
gettivo di contatto o di convinzione, nella mancata partecipazione dei
secondi al movimento — che ne costituisce il limite più grave —
incidono grossi fatti oggettivi:
in parte, questi studenti non partecipano all’Università proprio
perché le strutture ed i metodi didattici attuali li « respingono » e li
disincentivano;
in parte ben maggiore, quegli stessi fattori economico-sociali, e
quelle stesse carenze legislative, che impediscono a molti di acce
dere all'Università impediscono a molti suoi iscritti di frequentarla.
Ora, mentre rispetto al primo ordine di fattori (quelli didattici)
possiamo avere già nei limiti del movimento attuale un'incidenza
diretta, il secondo ordine di fattori supera di gran lunga la capacità
di incidenza del nostro movimento attuale. Tuttavia, appunto per
questo è necessario che fin da ora il movimento studentesco si im
pegni anche su questo terreno per obbiettivi immediati, sia in rap
porto all'inserimento degli studenti lavoratori nelle strutture didat
tiche dell'Università, sia in rapporto all'utilizzo delle risorse disponi
bili per borse e presalario. La lotta per questi obbiettivi dovrebbe
offrire alcune prime occasioni di contatto con questo strato di stu
denti, ed essere così un primo passo verso la rottura del più pesante
limite attuale del movimento.
Parte generale.
1. Gli studenti iscritti alle Facoltà di Lettere, Filosofia, Magistero,
Legge e Scienze Politiche si riuniscono in Assemblea generale; l'As
semblea generale si articola a sua volta in Assemblee in base a
comuni interessi culturali e professionali, indipendentemente dalla
Facoltà a cui gli studenti sono iscritti.
A titolo esemplificativo possiamo indicare le seguenti Assemblee:
Storia, Filosofia, Economia, Sociologia, Diritto nelle sue varie artico
lazioni, Pedagogia, Filologia Moderna, Filologia Classica, Archeologia
e Storia dell'Arte, Letterature straniere, ecc.
25
Nell'ambito di queste Assemblee si formano i gruppi di studio.
Ogni studente può partecipare a più assemblee a seconda dei suoi
interessi. L’ambito delle sue scelte sarà più ampio nei primi due anni
di corso; nei successivi si adeguerà alla specializzazione prescelta.
I gruppi di studio interessati ad essa verificano che tali scelte si ade
guino effettivamente a tale specializzazione.
Il collegamento tra queste Assemblee è realizzato, oltre che dagli
studenti stessi che lavorano nei gruppi di studio, dall'Assemblea
generale.
2. L'anno accademico viene suddiviso in due semestri. All’Inizio
di ogni semestre viene effettuata la programmazione didattica per il
semestre che si inizia. A questo fine vengono convocate le As
semblee di cui al punto 1) nel corso delle quali vengono proposti dagli
studenti argomenti di studio per gli eventuali gruppi. I professori
delle materie a cui le Assemblee si riferiscono inviano ad essi le
loro proposte per gli argomenti dei gruppi di studio. Tutte le proposte
vengono discusse e quelle che ottengono un numero sufficiente di
partecipanti diventano argomento dello studio dei gruppi per un
semestre.
3. Gli studenti partecipano ad un numero di gruppi di studio da
stabilirsi a seconda delle esigenze dei vari indirizzi di studio. I
gruppi di studio scelgono le persone tecnicamente esperte necessarie
al loro lavoro. Queste persone possono essere: professori di ruolo,
incaricati, liberi docenti, assistenti, borsisti, studenti competenti (ap
partenenti o no alla Facoltà o alla sede universitaria cui gli studenti
dei gruppi di studio sono iscritti), od anche persone esterne alla
stessa struttura universitaria.
4. Nei gruppi così costituiti un certo numero di riunioni iniziali
è dedicato alla precisazione del tema ed alla discussione sul metodo.
I gruppi di studio costituiscono la sede più idonea per soddisfare
anche le fondamentali esigenze di una preparazione istituzionale, se
condo un metodo di studio attivo e critico.
Un gruppo, anche in collegamento con altri, può richiedere l’istitu
zione di una serie precisata di lezioni.
La frequenza viene registrata. I gruppi possono dividersi in sotto
gruppi, o collegarsi od unificarsi con altri gruppi.
5. L'effettiva partecipazione al lavoro del gruppo è condizione ne
cessaria e sufficiente per ottenere il voto di libretto senza sostenere
esame. Il gruppo — integrato dal docenti e dagli esperti che hanno
collaborato — decide quando la partecipazione di un suo membro
non è sufficiente ai fini di quanto detto sopra. Per una valutazione
complessiva dell'attività del suo membro il gruppo terrà conto della
sua frequenza alle sedute di discussione comune, dei motivi dell'as
senza, dell'impegno nella attività svolta e di ogni altro elemento che
riterrà utile.
26
Il voto viene assegnato dopo una discussione cui partecipano tutti
i suoi membri (compresi gli esaminati) e tutti gli esperti, nella mi
sura del possibile. Il voto è assegnato in base ad un consuntivo glo
bale della attività svolta. Si tiene conto dei pareri motivati degli
esperti sulla competenza degli studenti in relazione a tecniche spe
cifiche. Si tiene anche conto delle esigenze di media ai fini del pre
salario e delle borse di studio che riguardano l'assistenza economica
agli studenti.
Il voto è assegnato individualmente, a meno che il sottogruppo
che ha costituito la minima unità fissa di lavoro richieda il voto
collettivo.
Il voto è segnato sul libretto e controfirmato dal segretario della
commissione esaminatrice esistente ai termini di legge secondo la
prassi oggi vigente.
6. Il piano di studi effettivo, impostato in base ai seminari scelti
dallo studente, sostituisce i piani di studio oggi obbligatori per i sin
goli corsi di laurea, lasciandoli formalmente in vigore.
Quando il tema del seminario scelto può rientrare nell'ambito di
una materia presente nel piano di studi del corso di laurea al quale
lo studente è iscritto, il voto ottenuto in seminario nel modo indicato
vale come voto di libretto per quella materia. Quando ciò non si ve
rifica — o per una riduzione del numero delle materie obbligatorie,
o perché una materia formalmente obbligatoria viene sostituita da
altra diversa scelta dallo studente, entro un ambito di libertà speci
ficato per i singoli corsi di laurea — il voto di libretto viene asse
gnato secondo tecniche da concordarsi (vedi a titolo esemplificativo
la seconda parte di questa carta, differenziata a seconda dei singoli
corsi di laurea oggi esistenti).
7. Il calendario delle assemblee delle riunioni in cui avviene la
formazione dei gruppi di studio e la scelta degli argomenti e degli
esperti verrà stabilito in modo da rendere il più agevole possibile la
partecipazione degli studenti lavoratori a tali riunioni.
Agli studenti lavoratori verranno offerte tre possibilità:
a) la partecipazione effettiva e continuativa ai gruppi di studio
formatisi nelle assemblee;
b) la formazione di gruppi di studio autonomi con pieno diritto
di scelta dell'argomento e con le stesse caratteristiche del precedenti
(anche se composti da un numero di persone inferiore alla media
del componenti degli altri gruppi di studio). Il lavoro svolto da questi
gruppi avrà valore sostitutivo dell’esame;
c) la preparazione individuale sugli stessi argomenti su cui la
vorano i gruppi di studio, concordata con i gruppi di studio stessi o
meglio con il gruppo di studio il cui argomento è stato scelto dallo
studente.
27
Gli studenti lavoratori non potranno ricevere da questa nuova
struttura che dei limitati benefici. Il loro problema può essere risolto
in modo definitivo soltanto con una riforma sociale e legislativa che
abolisca una volta per tutte il carattere selettivo della scuola italiana
e dell'Università in particolare.
8. Dal momento che è difficile accertare la condizione di studente
lavoratore tra i vari iscritti all'Università, la possibilità di sostenere
un esame sulla base di una preparazione individuale — di cui all'ar
ticolo 7, punto c) — è aperta a tutti gli studenti che all'atto della
formazione dei gruppi dichiarino di non poterli frequentare rego
larmente.
9. Ai gruppi vengono assegnati fondi prelevati:
dal bilancio dell’Università;
dai bilanci degli istituti scientifici;
dalle dotazioni delle segreterie di Facoltà (spese postali, ecc.).
I fondi assegnati ai gruppi di studio saranno amministrati da una
commissione composta da uno studente e da un esperto per ogni
gruppo eletti tra gli studenti e gli esperti che compongono il gruppo
stesso. I membri eletti a formare la commissione hanno pari dignità
ed entrano a far parte della commissione amministrativa con voto
deliberativo.
Della commissione fanno parte anche i rappresentanti dei gruppi
di studio « decentrati » costituiti dagli studenti lavoratori in quanto
anch'essi usufruiscono in pari forma dell'assegnazione dei fondi.
All’inizio del semestre la commissione eletta presenta all'approva
zione dell’Assemblea un bilancio preventivo, alla fine del semestre
un bilancio consuntivo.
figura tipica di consumatore di
reati universitari (scientifico)
28
LA SELEZIONE ALL’UNIVERSITÀ
Chi arriva all’Università.
All'Università ci arrivano in pochi. La scuola italiana dall'elemen
tare alle medie superiori è un grosso meccanismo di discriminazione
sociale. Grado per grado, decine, centinaia, migliaia di ragazzi ven
gono gettati fuori. Non sono soltanto le condizioni economiche dei
genitori a rendere loro impossibile il proseguimento degli studi. E'
la stessa scuola che con i suoi contenuti autoritari e sclerotici tende
a respingere tutti coloro che non sono disposti ad assorbirli. La scuola
non ha nulla da offrire ai ragazzi che vivendo nelle campagne e nelle
zone operaie della città hanno una loro esperienza di vita, una loro
cultura, che non ha niente a che fare con la cultura e la preparazione
che le classi dominanti gli vogliono imporre con la scuola. Ed infatti
la scuola a poco a poco li esclude. Procedendo dalle elementari alle
medie superiori il numero degli studenti si assottiglia sempre di più,
e i ragazzi esclusi, quelli che vanno a lavorare prima, sono quelli che
già in partenza si trovano nelle condizioni sociali peggiori. La scuola
non fa altro che perpetuare la discriminazione sociale esistente e
riprodurla tale e quale. Ma questa, che è la funzione reale della
scuola, è sempre nascosta, mascherata: la selezione si presenta al
l’esterno come una scelta degli individui più capaci, più volenterosi,
più intelligenti. Ma il tipo di capacità richiesta, non ha nulla di ogget
tivo, non è riferita a certi determinati parametri che sono quelli della
cultura della classe dominante. Chi non vive, anche al di fuori della
scuola, in questa cultura, chi non ne assorbe i valori all'interno delle
mura domestiche, chi non impara a parlare italiano in famiglia, diffi
cilmente potrà essere valutato « capace » e « meritevole »; sarà « a
priori » uno svogliato o un cretino. In questo modo la scuola può
andare avanti tranquillamente e i maestri e i professori possono con
tinuare a bocciare i ragazzi svogliati senza problemi di coscienza. I
concetti di « capacità », « intelligenza » e « merito » nella nostra scuola
servono dunque solo a dare una patina di legittimità e onorabilità alla
selezione classista che la scuola opera giorno per giorno.
Nel periodo della scuola dell’obbligo circa la metà dei ragazzi ven
gono gettati fuori dalla scuola e vanno a lavorare. Dei nati nel 1950
alla fine della terza media erano stati definitivamente persi alla scuola
531.000 ragazzi su 1.050.000 che si erano iscritti alla prima elemen
tare. I ragazzi persi nella leva del 1952 erano 444.000 su 897.000 che
erano partiti. Dopo la terza media, non essendoci più l'obbligo del
l'istruzione, la selezione si fa più drastica e la scuola, rinunciando ad
ogni pretesa di mascherare la sua natura classista dietro l’etichetta
della « scuola eguale per tutti », diventa apertamente scuola dise
guale per pochi. Ai ragazzi che escono dalla terza media si offre la
scelta tra una scuola di prima classe per gli strati sociali superiori
(licei), e una scuola di seconda e terza classe per gli inferiori (isti
29
tuti tecnici e professionali). Senza contare che quelli ancora più infe
riori, che sono i più, dalla scuola sono già stati cacciati e stanno
lavorando. La scelta naturalmente è libera, come del resto era obbli
gatoria la scuola dell’obbligo. Quelli che escono dalla scuola di terza
classe devono fermarsi lì: faranno gli operai qualificati (se il padrone
gli riconoscerà la qualifica) o le dattilografe. Soltanto quelli di prima
classe hanno accesso incondizionato all’Università. Anche i ragazzi
che escono dagli istituti tecnici possono andarci, ma solo in quelle
Facoltà che corrispondono al ramo di specializzazione scelto in pre
cedenza. Ciò è perfettamente logico: solo quelli che hanno potuto
permettersi il lusso di frequentare per cinque anni una scuola assolu
tamente inutile (licei classici e scientifici), possono avere il diritto
di andare incondizionatamente avanti: sono di razza superiore. Per
ammettere le maestre al magistero invece ci vuole un esame sup
plementare.
I periti, i ragionieri e i geometri, certi lussi non hanno potuto
permetterseli: è meglio non fidarsi troppo di loro e limitargli la scelta
delle Facoltà, altrimenti si correrebbe il rischio di avere dei funzio
nari del fisco, come finiscono molti dottori in legge, che non hanno
imparato il greco o dei dentisti che non hanno imparato a tradurre il
Leopardi in latino!
Molti di loro però « scelgono » di andare a lavorare, ma quelli che
vanno all'Università di solito (come vedremo in seguito) non avranno
certo di che rallegrarsi. All'Inizio dell'Università dunque, il gioco è
fatto. Erano partiti quasi tutti. Sono arrivati soltanto quelli che fin
dalla prima elementare si sapeva che sarebbero arrivati. Nel 1963 i
figli dei professionisti, dirigenti, alti funzionari e impiegati, erano
l'86,5% della popolazione universitaria, i figli di lavoratori dipendenti
il 13,5%. Anno per anno il meccanismo nella scuola continua a fun
zionare colla stessa regolare precisione e a riversare nell'Università
la stessa élite predeterminata. Nulla è lasciato al caso.
Chi cade durante l'Università.
Ma la selezione classista durante l'Università continua. Sempre
nel 1963 gli studenti di estrazione borghese erano il 91,9% dei lau
reati in quell’anno, i figli di lavoratori dipendenti solo l'8,1%: segno
che nel frattempo molti di questi ultimi erano stati persi per strada.
In effetti nelle Università italiane la metà degli studenti che si iscri
vono all'Università non arrivano alla laurea. All'Università di Torino
i laureati dell’anno 1961-'62 erano solo il 45% degli studenti che
erano partiti cinque anni prima (abbiamo supposto infatti che questa
sia la durata media del curriculum universitario; ma anche se questa
supposizione fosse errata, i dati riportati sarebbero egualmente at
tendibili in quanto la quota dei fuori corso sugli iscritti è rimasta
negli ultimi dieci anni pressoché costante, sul 26-27%, segno che
la tendenza ad andare fuori corso e la tendenza dei fuori corso a
30
laurearsi è rimasta immutata). Nel ’62-’63 si è laureato il 39%; nel
’63-'64 il 42%: nel ’64-’65 il 41%.
Qual è la composizione sociale dell'altra metà, di quelli che non
arrivano alla fine? Le statistiche che abbiamo sotto mano non ce lo
dicono, ma possiamo arrivarci approssimativamente per altra via.
Come già abbiamo detto, alcuni anni fa l’accesso ad alcune Fa
coltà è stato allargato ai diplomati degli istituti tecnici, mentre per
le altre ciò non è avvenuto. Mentre in queste ultime l'estrazione
sociale degli studenti non è presumibilmente cambiata, nelle prime
c'è stata una forte immissione di giovani di condizioni sociali infe
riori. Prendiamo Economia come esempio del primo tipo e Legge del
secondo.
Negli ultimi dieci anni a Torino gli iscritti a legge sono rimasti
quasi costanti (da 1567 a 1854), mentre ad economia sono raddop
piati (da 2045 a 4025), il che comprova il progressivo mutamento di
base sociale che si è verificato nella seconda. Questo dato è anche
verificabile sul piano nazionale. Infatti nel 1964-'65 gli iscritti al primo
anno di provenienza borghese erano il 70% ad economia, l’82% a
legge; rispettivamente al disotto e al disopra della media di tutte le
Facoltà (76,4%).
Ora, mentre a legge gli studenti che arrivano a laurearsi sono in
percentuale superiore alla media (circa il 55% nei dieci anni), a eco
nomia tale percentuale è paurosamente bassa: 14,6% nel ’58-’59;
17,7% nel ’61-’62; 13,5% nel ’62-’63; 15,8% nel ’63-’64. Sull’altissima
« mortalità » degli studenti di economia incide naturalmente il gran
numero dei figli di imprenditori e dirigenti industriali i quali hanno
già un posto direzionale che li aspetta e non sono quindi molto sti
molati a seguire gli studi. Ma è chiaro che una selezione così forte
non può spiegarsi col ricorso a questi soli casi. Il grande « boom »
delle Facoltà di economia è stato determinato dall'ingresso dei geo
metri e dei ragionieri. In una Facoltà aperta alla razza inferiore, la
selezione è diventata una strage. Seguiamola anno per anno: gli stu
denti del 1° anno del ’56-’57 ad economia erano 722; l’anno succes
sivo, al 2° anno, erano rimasti 436; nel 3° 316; nel 4° 262: in quest’ul
timo anno solo 106 presero la laurea. La strage si ripete ogni anno
in modo così ordinato che è impossibile pensare al caso.
Osservate gli studenti che ogni novembre si iscrivono al primo
anno di economia: 85 su 100 sono destinati a non arrivare mai alla
fine. Se li guardaste bene potreste anche indovinare fin dall’inizio
chi saranno gli eletti che si salveranno: sono quelli che vengono dal
liceo, quelli che hanno la cultura in casa, quelli che quando sono nati
si sapeva già che sarebbero diventati dottori. E’ inutile che portiate
dei casi diversi che sono successi; se il sistema non avesse ecce
zioni nessuno avrebbe potuto trattenere gli altri (gli scartati, gli
esclusi) da distruggere tutta l'Università a colpi di piccone. In realtà
possiamo anche più esattamente dire che su 100 studenti, 75 sono
31
certamente destinati a fallire; 10 certamente destinati a riuscire e
gli altri 15 non sono predeterminati affatto. E’ su questi ultimi 15
(le eccezioni) che si regge tutto quanto il sistema. Ma ciò non toglie
che più della metà partano fin dall'inizio senza alcuna speranza ed al
cuna possibilità.
I primi della classe.
Ma neppure quelli che arrivano alla laurea sono tutti uguali. Al
l’interno della élite che va all'Università si crea un’élite ancora più
ristretta. Lo stesso meccanismo della frequenza e degli esami, sul
quale è congegnata tutta l'Università, è fatto apposta per produrre
questa ulteriore discriminazione. Soltanto un numero limitato di stu
denti può permettersi di perdere il suo tempo ad ascoltare le lezioni
dei professori senza essere pagati o senza trarre alcun vantaggio: gli
altri si dedicano ad attività retribuite oppure a cose più interessanti.
Non ci rimettono molto sul piano della loro preparazione, ma così
facendo ci rimettono agli esami: non si sono mai fatti vedere dai
professori, non conoscono i loro pallini, sono a priori degli « svo
gliati ». Intanto i ragazzi di buona famiglia che sono stati abituati
fin da piccoli a credere nella scienza e nella cultura e ad essere
quindi ambiziosi e arrivisti vanno avanti. Siccome ai professori (più
operosi) piace allevare vivai ristretti e selezionati di giovani, per
farci la « scuola », vengono istituiti i seminari che di solito non ser
vono a niente, ma hanno la funzione di isolare e selezionare ed
educare ideologicamente quei « bravi » che per tutto l'anno sono
stati seduti nei primi banchi per farsi vedere. La frattura tra questi e
la massa degli esclusi, quelli che non vengono allevati e sono trattati
male agli esami perché parlano meridionale, si esprimono male o por
tano un nome sconosciuto, diventa sempre più forte.
La carriera dei primi e dei secondi è segnata: 110 con un profes
sore « difficile » per gli uni; un voto mediocre nelle materie « facili »
per gli altri. E non si dica che i primi sono più capaci. « Capace »
nella nostra Università non vuole dire niente. E' questione di soldi e
di ambizione: una volta laureati questi faranno gli assistenti volontari,
cioè faranno i servi del cattedratico, senza prendere una lira. « Questo
non è un romantico disinteresse, è un sistema raffinato per escludere
la razza inferiore senza dirglielo in faccia. La lotta di classe quando
la fanno i signori è signorile » (« Lettera a una professoressa » - dei
ragazzi di don Milani - p. 73).
LA POLITICA
DEL DIRITTO ALLO STUDIO
La gravità delle condizioni degli studenti lavoratori è accentuata
dal fatto che non esiste al momento attuale alcuna effettiva politica
di diritto allo studio: ognuno è lasciato in balia delle proprie possi
bilità economiche e se non può farcela, pazienza. Dopo quanto si è
32
detto finora questo non deve destare molto stupore: questo tipo di
scuola discriminatrice e classista corrisponde bene ad una società
basata anch'essa sulla discriminazione sociale ed è ovvio che le
classi dominanti non abbiano alcun interesse a cambiare le cose.
E' opportuno comunque analizzare più da vicino l'attuale politica
del diritto allo studio, per vedere in che misura essa sia inutile ed
irrisoria.
Innanzi tutto c'è il problema dei non studenti — cioè di quelli che
vengono scartati prima di arrivare all'Università. Per loro il diritto
allo studio non è assolutamente garantito. Dopo la scuola dell'obbligo
(che è gratuita - ma i libri ed il mantenimento non lo sono) ognuno
deve reggersi sulle proprie forze. Siccome è questa la fase dell’iter
scolastico in cui la selezione è più drastica, è chiaro che il problema
del diritto allo studio va posto con maggior forza proprio per le
scuole superiori. Ciò impone un legame molto stretto fra la lotta
degli studenti universitari e quella degli altri studenti, senza il quale
la prima si ridurrebbe fatalmente ad un fatto corporativo di conserva
zione di certi privilegi.
Ma veniamo all'Università. Fino al 1963 le provvidenze che esiste
vano a favore degli universitari erano tre: esenzione dalle tasse,
borse di studio e posti gratuiti in collegi. Nel 1963 si aggiunse l'as
segno di studio o presalario. Vediamo separatamente queste forme di
assistenza.
1 / ESENZIONE DALLE TASSE
Per ottenere l'esenzione dal pagamento delle tasse bisogna tro
varsi in condizioni economicamente disagiate ed essere molto meri
tevoli: innanzitutto è necessario aver dato tutti gli esami previsti dal
piano di studi per l'anno precedente, in secondo luogo bisogna aver
ottenuto la media del 27 senza comunque mai scendere sotto il 26
(è concesso al massimo un 21). Se invece si ha la media del 24
(scendendo al 21 in un solo esame) si può ottenere la dispensa par
ziale che consiste nel pagare la metà delle tasse. Purché sempre si
siano dati tutti gli esami in corso.
Queste disposizioni sono fatte apposta per evitare che la gente
che ne ha bisogno benefici dell'esenzione. Infatti esse contengono
un'intrinseca contraddizione: abbiamo visto che per prendere una
media alta bisogna frequentare, farsi vedere e passare per studenti
« bravi ». Ma soltanto quelli che hanno un certo reddito familiare
possono permetterselo. Si instaura un circolo vizioso: quelli che
avrebbero bisogno di non pagare le tasse per andare avanti negli
studi non riescono a realizzare la media richiesta per usufruirne;
quelli che la realizzano invece non trovandosi nelle condizioni di disa
giatezza prevista sono a priori esclusi.
E infatti l'esenzione non l’ottiene quasi nessuno. I beneficiati del
33
l'esenzione (sia totale che parziale) sono rimasti negli ultimi 10 anni
una percentuale irrisoria sugli iscritti: il 5% circa.
Va notato inoltre che la possibilità di non pagare le tasse o di
pagarle metà, di per sé aiuta molto poco. Rimangono l'acquisto dei
libri e delle dispense (che sono molto care), rimane il mantenimento.
Con l’esenzione si elimina per alcuni soltanto un odioso carico che
viene imposto arbitrariamente sul bilancio degli studenti, già suffi
cientemente gravato da altre voci. In una scuola « normale » di tasse
non si dovrebbe neppur parlare.
2 / I COLLEGI
Gli studenti che risiedono fuori Torino sono poco più della metà:
circa 10.000. Costoro si trovano in condizione di netta inferiorità ri
spetto agli studenti che stanno in città. Sarebbe interessante poter
vedere in quale percentuale si laureano rispetto ai residenti in To
rino. Dalle statistiche fornite dall'Università questo non lo possiamo
ricavare, ma è possibile supporre che per loro è molto più difficile
arrivare alla laurea. Su di loro infatti gravano costi e disagi supple
mentari: se si stabiliscono a Torino devono sottostare alle specula
zioni dei proprietari d'alloggi e degli affittacamere e pagarsi i pasti
nelle trattorie; se decidono di rimanere con la famiglia, devono sob
barcarsi il prezzo del treno o del pullman e affrontare il disagio di
parecchie ore giornaliere di trasporto. Non c’è da stupirsi che molti
preferiscono venire a Torino solo ogni tanto e rassegnarsi quindi a
ottenere (se la otterranno) una laurea di rango inferiore.
La situazione è così grave perché in pratica non esistono collegi.
I posti in collegio a Torino si ripartiscono in quattro categorie. La
prima è costituita dai posti gratuiti messi in concorso dall'Ente Col
legi. L'anno scorso ne sono stati assegnati 44, e 36 per il Politecnico,
in tutto 80 posti: i fondi a disposizione del Collegio potevano coprirne
150. Infatti le condizioni di merito richiesto sono così alte che le
domande presentate sono sempre in numero inferiore ai posti dispo
nibili. Si arriva così all’assurdo che rimangono dei fondi inutilizzati,
mentre un numero enorme di studenti (forse non abbastanza « me
ritevoli ») sono costretti ad arrangiarsi in camere d'affitto. Al Col
legio d’altronde conviene tenere alte le medie richieste per ottenere
il posto gratuito e così assegnare solo la metà dei posti disponibili,
perché in questo modo si rendono liberi più posti che possono essere
dati a pagamento, che gli consentono di realizzare — come ve
dremo —un certo guadagno. Per conservare il posto l'anno succes
sivo bisogna aver dato tutti gli esami entro il 31 ottobre (niente ses
sione di febbraio, niente post-appelli a novembre) e naturalmente
prendere la media del 27.
La seconda categoria di posti sono quelli banditi dall’Opera Uni
versitaria. Si tratta di « borse di studio di Lire 200.000 ciascuna... Su
richiesta dei concorrenti tali borse di studio possono essere conver
34
figura tipica di consumatore
di reati universitari (umanistico)
tite... in posti di studio presso il Collegio..., consistenti nel vitto e
nell'alloggio gratuiti, nella lavatura e nella stiratura della biancheria,
per il periodo 7 novembre 1967 - 15 luglio 1968 (escluso Natale e
Pasqua) e per il periodo 3 ottobre 1968 - 31 ottobre 1968 » (articolo 1
del bando di concorso dell’Opera Universitaria per l’anno 1967-68).
Un posto in Collegio costa dunque all'Opera 200.000 lire. L’anno
scorso le Opere dell'Università e del Politecnico avevano bandito
115 posti, ma ne hanno assegnati soltanto 74. Anche qui le domande
sono state inferiori ai posti disponibili per il solito motivo. In tutto su
265 posti banditi, 111 sono rimasti inutilizzati: a Torino ci sono solo
154 studenti sufficientemente meritevoli da avere il Collegio gratis!
In terzo luogo gli studenti che ottengono il presalario da 360.000
lire possono convertirlo in un posto in collegio. A questo proposito
il Bando dell’Università di Torino per l'anno 1967-68 dice all'art. 4:
« l'assegno di studio dell'ammontare di lire 360.000 può essere cor
risposto su richiesta dell'interessato... sotto forma di posto di studio,
35
consistente nel vitto e nell'alloggio gratuiti, nella lavatura e nella sti
ratura della biancheria, per il periodo 7 novembre 1967 - 15 luglio
1968 (escluse le vacanze di Natale e Pasqua) e per il periodo 3 ot
tobre 1968 - 31 ottobre 1968, senza alcun conguaglio in denaro ».
Dunque il Collegio ospitando uno studente, incassa tutte le 360.000
lire (fino all'anno scorso gli rimborsava — bontà sua — 10.000 lire),
per un posto che — come abbiamo visto — costa in realtà solo
200.000 lire. E dire che quelle 160.000 lire che avanzano servirebbero
agli studenti per comprarsi i libri e le dispense.
Gli studenti che hanno ottenuto questo terzo tipo di posti-Collegio
erano l'anno scorso 191 su 621 tra Università e Politecnico.
La legge sul presalario (del 14 settembre 1963, n. 80, art. 1,
comma 2) dice che l’assegno di studio « non è cumulabile con altri
assegni o borse di studio o posti gratuiti in Collegi », ma l'Ente Col
legi di Torino è particolarmente generoso ed ha stabilito che se uno
studente vince contemporaneamente il posto gratuito in Collegio e
il presalario, non deve rinunciare a quest’ultimo. In questo caso le
360.000 lire del presalario vengono divise tra lo studente e il Col
legio: un terzo allo studente, due terzi al Collegio. Il Bando di Con
corso dice infatti: « i vincitori del concorso che conseguiranno anche
l'assegno di studio avranno complessivamente diritto, oltre al vitto
e all’alloggio, a un contributo in denaro compreso fra le 120.000 e
le 150.000 lire ».
I posti-Collegio che rimangono dopo l'assegnazione dei posti gra
tuiti dell'Ente Collegi, dei posti gratuiti dell'Opera e dei posti gratuiti
col presalario, sono dati a pagamento, naturalmente, ai « meritevoli ».
In questo caso il Collegio costa ancora più caro: 380.000 lire. E sic
come i posti gratuiti non vengono assegnati mai tutti (gli studenti
meritevoli non sono sufficienti), i posti a pagamento si dilatano enor
memente. Nei due Collegi dell'Università (il maschile e il femminile)
i posti a pagamento l'anno scorso erano 111 su 253, cioè il 47%. In
altre parole i nostri Collegi per metà sono degli alberghi.
3/LE BORSE DI STUDIO
Ogni anno l'Opera universitaria mette in palio un certo numero
di borse di studio che vengono assegnate discrezionalmente ai « mi
gliori » tra quelli che hanno fatto domanda. Le borse sono una cosa
veramente irrisoria. Gli studenti che ne usufruiscono erano lo 0,7%
degli iscritti 10 anni fa e sono stati lo 0,9% l'anno scorso. Inoltre
esse consistono in 200.000 lire; che sono appena sufficienti per pa
garsi le spese-base dell’Università, cioè tasse e libri. Ogni anno viene
pure assegnato un certo numero di sussidi, che si aggirano in media
sulle 20.000 lire annue. Bastano appena per comperarsi le sigarette.
4/ IL PRESALARIO
Il presalario (chiamato ufficialmente assegno di studio) è stato
un’innovazione recente, ottenuta grazie alle battaglie del movimento
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studentesco. L'innovazione — rispetto alle borse di studio — con
siste nel fatto che mentre le borse vengono date discrezionalmente,
il presalario costituisce un diritto per tutti coloro che si trovano in
certe condizioni. Con questo si voleva fare un passo avanti verso
l'introduzione di una retribuzione generalizzata a tutti gli studenti.
Ma il passo è stato così piccolo che quasi nessuno se ne è accorto.
Vediamo dunque le condizioni per avere il presalario.
Innanzitutto il reddito. Per avere il presalario bisogna appartenere
ad una famiglia col reddito inferiore al minimo imponibile per l’imposta
complementare. L’imposizione di un limite così basso per il reddito
fa sì che il presalario non serva quasi a nessuno. L'ipocrisia di questa
disposizione sta in questo: la gente che ha un reddito veramente
basso all’Università non ci arriva neppure (per la totale assenza di
assistenza nelle scuole inferiori), mentre quelli che hanno un red
dito un poco superiore al minimo imponibile, ma non sufficiente per
mantenersi regolarmente agli studi, finiscono per non ricevere nulla.
Le condizioni di reddito per il presalario tendono di per sè a risolvere
i casi estremi, ma lasciano intatti i casi di normale impossibilità a
frequentare l'Università.
Se poi passiamo alle condizioni di merito vediamo che l'ambito
del presalario si restringe ancora di più.
Innanzitutto per il presalario si richiede che uno abbia dato la
metà degli esami dell'anno nella sessione di giugno.
In secondo luogo bisogna ottenere una media di un ventesimo su
periore alla media generale della Facoltà, calcolata sugli studenti che
hanno sostenuto tutti gli esami in corso secondo il piano di studi.
Il metro di misura per avere il presalario è dunque la media dei
primi della classe, di quelli che vanno avanti facilmente perché pos
sono frequentare le lezioni e i seminari. Ma per avere il presalario
non basta mettersi al passo con loro, bisogna essere di un ventesimo
più bravi. La conseguenza è che in certe Facoltà prendere il pre
salario è quasi impossibile. L'anno scorso, per esempio, per avere il
presalario al IV anno di lettere bisognava avere almeno la media del
29,721, al IV anno di scienze naturali ci voleva il 30 netto. Chimica
non è una Facoltà molto facile, ma se quest'anno non sì supera il
29,17 al V anno non si può avere il presalario. A filosofia poi bisogna
essere super: quest'anno è necessaria la media del 28,98 per il
Il anno e del 30 per il III e il IV.
Se poi in una Facoltà la media dei primi della classe supera il 29,
sarebbe assolutamente impossibile prendere il presalario: bisogne
rebbe avere la media del 30,45.
Il sistema è congegnato in modo da far sì che quei pochi che
arrivano a prendersi il presalario devono fare tutti gli sforzi possibili
per integrarsi al massimo nella struttura delle lezioni-esami per poter
mantenere l'assegno di studio per l’anno dopo, vivendo costante
mente sotto l'incubo di perderlo. E infatti la maggioranza lo perde.
L’anno scorso il presalario l'hanno avuto 965 studenti. Più della
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metà erano del primo anno cioè 485, al secondo anno erano 279,
al terzo 103, al quarto 33 e al quinto 7. A questi vanno aggiunti
54 studenti che hanno convertito il presalario in un posto-Collegio.
Occorre notare inoltre che dei 279 del secondo anno solo la metà,
138, avevano ottenuto la conferma dall'anno precedente, gli altri 141
lo avevano preso per la prima volta. In complesso, dei 380 studenti
degli anni superiori al primo che hanno avuto il presalario solo 298
lo avevano l'anno prima, mentre 182 lo ricevevano per la prima volta.
I dati confermano il fatto che il presalario sfiora appena la condi
zione studentesca: a Torino, nel '63-’64 l'hanno avuto il 6,93% degli
studenti del primo anno, nel ’64-'65 il 5,02% di quelli del secondo
anno. Le medie nazionali sono poco più alte (rispettivamente 7,62 e
7,31) ma rimangono in un ambito molto ristretto.
Infine bisogna notare che coloro che ottengono il presalario, rice
vono un aiuto assolutamente insufficiente: 200.000 annue per chi
sta a Torino, 360.000 per chi sta fuori. 200.000 lire significano 17.000
lire al mese: con un’entrata di questo tipo nessuno può vivere a
Torino, tenendo conto che rimangono da pagarsi i libri. Il presalario
infatti non è cumulabile con nessuna altra forma di assistenza, a
parte l’esenzione dalle tasse.
QUANTO COSTA L’UNIVERSITÀ
L’assistenza negli ultimi 10 anni è complessivamente aumentata,
ma l’Università è diventata nello stesso periodo molto più cara, vani
ficando in parte i progressi che si sono avuti in campo assistenziale.
Le tasse si compongono di due parti essenziali: una (tassa di
immatricolazione ed iscrizione) è stabilita centralmente dal governo
ed è uguale per tutta Italia; la seconda (contributi unificati) è stabi
lita anno per anno da ogni singola Università.
Mentre la prima parte è rimasta costante negli ultimi 10 anni, la se
conda ha subito un aumento vorticoso. Nel ’56-'57 uno studente pa
gava in media 14.200 lire di contributi unificati; nel ’65-'66 21.200
lire: un aumento del 50%.
Considerando tutte le voci delle tasse l'aumento risulta ancora
più considerevole: 30% in più. Per gli studenti che non hanno avuto
alcuna forma di assistenza o per coloro che hanno ricevuto soltanto
facilitazioni parziali (per esempio borse-libro), la frequenza all'Uni
versità è diventata molto più gravosa anche in rapporto all'aumento
del costo della vita.
Ma non ci si può fermare alle tasse. La nostra Università impone
tutta un’altra serie di voci che sono difficilmente accertabili ma che
costituiscono un peso molto rilevante per gli studenti. L'iscrizione
agli esami che in altre Università non costa niente, qui viene fatta
pagare 250 lire per esame. Se poi ci si iscrive in ritardo si paga una
mora di lire 1000 che dopo un po' di tempo diventano 6000.
Nella Facoltà di lettere chi sgualcisce una scheda che viene con
segnata all’inizio del primo anno, deve pagare lire 10.000. Si noti che
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la scheda ha un formato tale che è quasi impossibile non sgualcirla.
C'è infine una tassa supplementare per chi vuol ripetere un esame
in cui è stato bocciato, col che si colpisce di più gli studenti meno
abbienti che più facilmente vengono bocciati agli esami.
Si può calcolare che la spesa per tutte queste voci non può es
sere minore di Lire 5.000 all’anno in media per studente.
Ma è importante valutare complessivamente il costo dell’Univer
sità, anche per porlo in rapporto con l'entità delle sovvenzioni che
vengono date. Le tasse costano circa 55.000 lire annue in media per
le Facoltà umanistiche e dalle 65.000 alle 75.000 lire per le Facoltà
scientifiche, con un massimo di 83.000 lire per la Facoltà di chimica.
Occorrerebbe poi aggiungere il costo dei libri e delle dispense.
Queste ultime vengono fatte pagare a peso d’oro. Su di esse specu
lano tutti: librai, piccoli editori che hanno il monopolio di certe Fa
coltà, professori, e perfino bidelli. Abbiamo calcolato che uno stu
dente di medicina che voglia studiare tutti gli esami sui trattati,
finisce per spendere in sei anni quasi mezzo milione.
esiste il diritto allo studio?
Sommiamo il numero degli studenti che hanno ricevuto una qualche
forma di assistenza. Dieci anni fa (1956-’57) erano 587 pari al 6,8%
della popolazione universitaria di allora; nel 1965-’66 sono stati 2176
cioè il 14,1%. In dieci anni il numero degli studenti assistiti è per
centualmente raddoppiato. Il balzo in avanti è dovuto all'introduzione
del presalario che da solo copre più di un terzo dell'assistenza com
plessiva. Infatti le altre forme di assistenza sono rimaste percentual
mente costanti nei dieci anni. Questo significa che l'aumento realiz
zato non è estrapolabile nel futuro: con le vecchie forme assistenziali
si raggiungeva un livello più o meno costante attorno al 7%; oggi
con la piena attuazione della legge sul presalario l’assistenza tende
a stabilizzarsi sul 14%, una quota ancora troppo bassa per garantire
una incidenza effettiva della politica di diritto allo studio. Si noti
inoltre che i dati sono un po’ superiori al reale perché non si tiene
conto che un solo studente può aver cumulato più provvidenze. Per
esempio, molto comune è il fatto di ottenere contemporaneamente
presalario ed esenzione dalle tasse. Questo significa che probabil
mente metà degli studenti esentati hanno anche il presalario. Se
questa ipotesi che non possiamo verificare fosse vera gli studenti as
sistiti sarebbero solo 1789, cioè l'11,5% degli iscritti.
Ma il discorso è insufficiente se non si guarda che cosa c’è
dentro questo 14%. Infatti tra gli studenti assistiti sono compresi sia
quelli che hanno ricevuto il presalario o le borse di studio, sia quelli
che sono semplicemente stati esentati dal pagamento delle tasse o
le hanno pagate parzialmente. Nel 1965-'66 gli studenti che hanno ot
tenuto somme di danaro (varianti dalle 200.000 alle 360.000 lire) non
sono nemmeno la metà degli studenti assistiti (il 45,8%). Tra gli
altri 14,3% ha ricevuto borse libro, il 4,3% posti gratuiti in Collegio
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(esclusi i posti con presalario). Il rimanente 35,7% l'esenzione par
ziale o totale dalle tasse. Nessuno di quel 14% di studenti assistiti
è messo in condizioni economiche che gli rendano possibile il man
tenimento completo agli studi. Tutti continuano a dipendere più o
meno dalle loro condizioni economiche preesistenti e a dover mante
nersi sulla base di proventi familiari o sul loro lavoro. Più della metà
degli assistiti non riceve alcun compenso in danaro, ma soltanto delle
facilitazioni parziali.
Inoltre quel 14% di studenti assistiti non è distribuito proporzio
nalmente fra tutti gli anni di corso, ma è concentrato sui primi. Ciò
significa che nessuno è assistito per tutta la durata del suo curri
culum di studi. Le condizioni richieste per ottenere delle previdenze
sono così gravose, che prima o poi tutti quanti dovranno trovare il
modo di mantenersi completamente da sè.
Infine occorre osservare che per ottenere il rinnovo di qualunque
forma di assistenza bisogna aver raggiunto condizioni di merito estre
mamente gravose. Questo meccanismo è fatto per incentivare gli stu
denti assistiti a produrre di più: se non riescono a dare tutti gli
esami e a riportare determinate medie essi sono esclusi dal bene
ficio. In sostanza l'assistenza non è che una forma di retribuzione a
cottimo e come tale rappresenta uno strumento di controllo sociale
sugli studenti. Gli studenti assistiti devono produrre il massimo pos
sibile, non possono facilmente permettersi di occuparsi di politica e
di protestare; la loro condizione tipica è quella di vivere con il ter
rore di perdere l'assistenza. Per questo l'assistenza che viene nor
malmente presentata come una forma di aiuto allo studio è in realtà
un ulteriore elemento di oppressione e di controllo che grava sugli
studenti meno abbienti e che li rende diversi dagli altri.
Il diritto allo studio non esiste.
ATENEO / direttore: Diego Marconi / respons.: Enzo Morsero / illustra
zioni a cura di S. Annoni e G. Torri / tip. F.lli Scaravaglio e C., via
C. Massaia 106, Torino / Autorizz. del Trib. di Torino n. 497 del 14-11-1949.
Collezione: Ateneo di gennaio 1968 (contiene il numero intero)
Citazione: “Ateneo di gennaio 1968,” Riviste degli studenti, ultimo accesso il 24 settembre 2023, https://rivistestudenti.unito.it/items/show/2548.